La politica e la situazione dei giovani
Si sa che i giovani hanno votato in stragrande maggioranza NO al referendum (dal 68 all’81% secondo diverse rilevazioni). I promotori del No hanno festeggiato la loro vittoria, ma c’è poco da festeggiare perché più del dissenso sulla riforma costituzionale ha pesato la situazione dei giovani e il loro rapporto con la politica che non sembra in grado di migliorare la loro condizione.
Una conferma viene da un’altra rilevazione che fissa una prevalenza del NO al 66% dei voti nei 100 comuni con più disoccupati cui corrisponde il 59% di Sì nei 100 comuni con meno disoccupati. Il fatto è che in Italia i giovani stanno pagando più degli altri le conseguenze della crisi tanto è vero che si è prodotta una disuguaglianza speciale, tutta per loro, che li allontana dalle altre classi di età.
Secondo dati della Banca d’Italia negli ultimi 20 anni il reddito delle persone con più di 65 anni è cresciuto del 19% mentre quello dei minori di 35 anni è diminuito del 15% e quello della fascia fra 35 e 44 anni ha segnato un meno 12%. In pratica la crisi è stata pagata dalle classi di età che comprendono la giovinezza e la maturità, mentre i più anziani hanno goduto di una tutela efficace ed estesa.
Un trend confermato dal Censis che ha rilevato nel corso degli ultimi 25 anni una diminuzione di reddito del 15% per le famiglie di giovani con meno di 35 anni che si traduce anche nella diminuzione della ricchezza disponibile. Nel concreto significa che i giovani hanno potuto beneficiare del patrimonio accumulato dalle famiglie di origine, ma non sono in grado di farsene uno proprio. Inoltre, nel confronto tra il 1991 e il 2016 il reddito dei giovani di oggi è inferiore del 26,5% a quello dei coetanei di allora. Ma il reddito di coloro che hanno più di 65 anni è aumentato del 24,3%. Se ci aggiungiamo che la disoccupazione giovanile è al 36% e che la riforma del mercato del lavoro ha creato più occupazione per gli adulti abbiamo un quadro veramente demoralizzante per i giovani.
Per correggere le disuguaglianze ci sono però due strumenti politici da utilizzare: il fisco e la spesa pubblica. Funzionano? Sembra di no.
Alcuni analisti esemplificano la situazione paragonando la disuguaglianza dei redditi italiana a quella dell’Inghilterra, ma non con la pressione fiscale inglese bensì con quella, molto alta, della Svezia. Un record singolare, non c’è che dire.
L’effetto della spesa pubblica viene rappresentato da un dato: l’intervento dello Stato fa crescere la disuguaglianza invece di ridurla. In pratica, per dirla brutalmente, lo Stato preleva con le tasse molti soldi che non servono a ridurre il disagio di chi sta peggio ma vanno a chi sta meglio. Dati Ocse dicono che il 35% della spesa sociale va al 20% più ricco e meno del 10% al 20% più povero. La spesa pensionistica in rapporto al Pil è al 16% e la pressione contributiva sui salari al 33%, percentuali fra le più alte al mondo. Dulcis in fundo, chi gode delle prestazioni del welfare è all’84% anziano. Naturalmente si potrebbe dire dato che gli anziani godono di pensioni che assorbono un’alta percentuale di spesa pubblica e sono i maggiori fruitori delle prestazioni assistenziali e sanitarie. Tutto ciò porta Roberto Perotti ex responsabile della spending review del governo e docente presso l’università Bocconi di Milano a scrivere nel suo ultimo libro (Status quo) che il rischio di povertà estrema grava soprattutto sui giovani.
Si dice che il lavoro è la prima preoccupazione degli italiani. È vero, ma bisogna precisare che non si tratta solo di una questione personale perché al lavoro corrisponde il futuro del nostro Paese. Come stupirsi se ad ogni occasione proprio i giovani esprimono la loro protesta contro chi governa? Se i politici non capiscono questa situazione si condannano ad essere rifiutati
Claudio Lombardi
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