La progressività fiscale tutta a carico di dipendenti e pensionati
Un articolo di Paolo Liberati e Massimo Paradiso tratto da www.lavoce.info
Sintesi: Insistere nella difesa fine a sé stessa della progressività non permette di affrontare i veri problemi dell’Irpef. La metodica erosione delle basi imponibili l’ha trasformata in un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensione.
Progressività e base imponibile
Dopo l’approvazione del disegno di legge delega di riforma fiscale occorreranno due anni per darne applicazione. L’obiettivo di legislatura è procedere nella direzione di una progressività ad aliquota unica (flat tax); mentre nel breve periodo, si prevede una rimodulazione delle aliquote Irpef e l’estensione ai dipendenti di una sorta di flat tax incrementale sul modello già previsto per gli autonomi nel 2023.
Nel dibattito in corso, ad agitare più di tutto gli animi è la sorte della progressività dell’Irpef: un argomento che riemerge a ogni progetto di riforma e sul quale si innesta una ricorrente resistenza al cambiamento, in difesa dell’attuale sistema. Mentre rimane generalmente sotto silenzio come la metodica erosione delle basi imponibili, attraverso la moltiplicazione dei regimi sostitutivi e la fuga dalla progressività di intere categorie di contribuenti, abbia trasformato l’Irpef in un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensione.
In questo scenario, la difesa pregiudiziale dell’equità verticale fondata sulla progressività delle aliquote nominali appare funzionale a sostenere l’illusione della progressività effettiva. Intanto, la realtà del sistema fiscale si dirige altrove, verso un modello di progressività selettiva, che riserva ai contribuenti un trattamento tributario diversificato in base alla natura del reddito percepito. Cosicché, di fronte a una significativa erosione della base imponibile Irpef, concentrare l’attenzione sulla scala delle aliquote nominali, immaginando profili di progressività che spiegano i loro effetti a carico di una sola (o poche) categorie di contribuenti, dimentica le profonde violazioni dell’equità orizzontale che sono il vero vulnus dell’intero sistema di imposizione dei redditi.
Ciò è nei fatti del corrente sistema di progressività dell’imposta personale. Nell’anno di imposta 2021, la base imponibile è costituita per più dell’85 per cento da redditi di lavoro dipendente e pensioni. Con gli altri redditi (lavoro autonomo, impresa, fabbricati, dominicali, agrari, di capitale, diversi) a comporre il restante 15 per cento. Su un totale di 41,5 milioni di contribuenti, 17,7 milioni dichiarano un reddito inferiore a 15 mila euro e pagano in media meno di mille euro di imposta all’anno (evasori inclusi). Si tratta di contribuenti per i quali ulteriori riduzioni di imposta avrebbero un effetto pressoché irrilevante, mentre invece specifiche situazioni di fragilità economica e sociale, pure diffuse, potrebbero essere più opportunamente affrontate con la spesa pubblica.
Ma finanziata da chi? Al netto di quei 18 milioni di contribuenti, ne rimangono 23,8 milioni, di cui 22,7 milioni dichiarano un reddito complessivo tra 15 e 75 mila euro, e contribuiscono a due terzi del gettito Irpef. Sopra ai 75 mila euro di reddito complessivo, compare circa 1,2 milioni di contribuenti (il 2,7 per cento del totale), che contribuisce al gettito per il 29,2 per cento; tra questi poi, solo 115 mila soggetti dichiarano redditi superiori a 200 mila euro, contribuendo al 10 per cento dell’intero gettito.
A questi dati vanno aggiunti alcuni ulteriori elementi: primo, nella sbilanciata distribuzione tra i più o meno “ricchi” contribuenti compaiono in prevalenza lavoratori e pensionati che l’imposta la pagano senza fughe; secondo, considerando le addizionali regionali e comunali, gli incrementi di reddito sopra i 50 mila euro, per chi sta in Irpef, sono tassati con un’aliquota marginale che in alcune regioni supera il 47 per cento; terzo, le addizionali regionali e comunali non si applicano a chi gode di regimi sostitutivi o di regimi di determinazione forfetaria del reddito; quarto, la tassazione dei redditi da lavoro sopra i 50 mila euro è nei fatti una tassazione del reddito lordo, azzerandosi oltre tale soglia le corrispondenti detrazioni, una specificità teoricamente discutibile dell’attuale struttura dell’imposizione personale.
La tassazione “su misura” di alcune categorie
Ma come si è arrivati fin qui? La prevalenza in Irpef del reddito da lavoro dipendente e da pensione si deve al fatto che negli anni altre tipologie di reddito si sono giovate di una “sartoria tributaria”, per la quale numerose categorie di contribuenti sono state in grado di ritagliarsi – in varia misura, con varie giustificazioni e trasversale sostegno politico – un’opzione di uscita dalla progressività, in molti casi anche dal prelievo Irpef regionale e comunale, se non dal sistema tributario.
Dunque, perché e quale progressività si deve difendere? Si dice per dare attuazione al dettato costituzionale. Che limpidamente afferma all’articolo 53 che tutti sono tenuti a finanziare la spesa pubblica secondo capacità contributiva, aggiungendo che il sistema tributario nel suo complesso debba essere informato a criteri di progressività, da intendersi – quest’ultima – come mezzo per la ripartizione su tutti i contribuenti dell’onere della spesa pubblica. Per quanto si è detto, con una realizzazione pratica piuttosto discutibile.
Ad esempio, si finisce per assumere – in base a un pregiudizio che si è fatto regola – che per gli incrementi di reddito sopra i 50 mila euro, la capacità contributiva di un lavoratore dipendente (la cui aliquota marginale è il 43 per cento senza considerare le addizionali) di finanziare la spesa pubblica sia circa 1,6 volte la capacità contributiva di un percettore di dividendi (tassati al 26 per cento), più di due volte la capacità contributiva di un percettore di redditi immobiliari soggetto alla cedolare secca (21 per cento), e – almeno per un tratto – pari a circa 2,8 volte la capacità contributiva di un professionista in regime forfetario. Sono differenze che si attenuano solo leggermente per il fatto che le imposte sostitutive non consentono di considerare la situazione personale del contribuente, comunque in molti casi già interdetta nell’Irpef attuale dal superamento dei livelli di reddito complessivo che danno il diritto a fruire di detrazioni e deduzioni.
È una differenziazione del prelievo che si potrebbe giustificare solo se coloro che evitano la progressività dell’Irpef non ricevessero un identico trattamento sanitario o non fruissero dell’istruzione pubblica gratuita per i loro figli o non ricorressero con identico diritto all’ordine pubblico, al sistema di giustizia, e via dicendo. Il mito della progressività si infrange così sulla realtà di una contribuzione tributaria diversa per redditi di uguale ammontare, ma con identici servizi pubblici.
In questo contesto, il problema della riforma dell’Irpef non è nel numero delle aliquote, né nella difesa fine a sé stessa della progressività; il problema non è la flat tax o un’Irpef con diverse aliquote. Discutere astrattamente della scala ottimale delle aliquote davanti a così profonde violazioni del criterio di equità orizzontale e indipendentemente dal modello di welfare state che si vuole perseguire cela dietro paraventi ideologici i reali problemi dell’Irpef. A ciò si aggiunga che, in presenza di un grado di evasione strutturale, la progressività limitata a specifici contribuenti, tenderà ad aggravare la tensione tra coloro che vi sono soggetti e coloro che se ne possono sottrarre, pur godendo di beni e servizi pubblici che altri pagano. Insistere su elevare (o conservare) aliquote marginali già alte, anche sulla classe media, come unico baluardo contro la crescita della disuguaglianza potrebbe sortire l’effetto contrario: quello di rompere definitivamente il rapporto tra prelievo e spesa pubblica, conducendo insieme al declino sia della progressività effettiva sia del welfare.
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