La protesta delle campagne e la fine delle illusioni
Sono trascorsi veramente pochi anni da quando un’adolescente ombrosa guidò l’opinione pubblica dei paesi occidentali in una crociata ambientalista che la portò in cima alle attenzioni dei media di ogni parte del mondo aprendole le porte delle massime istituzioni in Europa, negli Usa fino all’ONU dove pronunciò uno dei suoi discorsi più veementi. Oggi la rivolta degli agricoltori sta facendo passare la sbornia a più d’uno di quelli che nel 2018-2019 avrebbero baciato il terreno calpestato dalla sedicenne svedese.
Per esempio chi l’avrebbe mai detto che Massimo Giannini celebre firma del giornalismo progressista avrebbe scritto le seguenti parole (Repubblica del 3 febbraio) a proposito delle proteste in corso: “Ma anche un malessere effettivo di famiglie e aziende, cittadini e consumatori ai quali, per ridurre il riscaldamento climatico nei prossimi 30 anni, si chiede di sostenere subito il costo di riconversione delle filiere che lo producono. Come dire: un sicuro tributo concreto nell’immediato (più imposte e meno aiuti) in cambio di un incerto vantaggio teorico nel 2050 con l’abbattimento delle emissioni di CO2. L’alluvione generata dal clima impazzito è un danno tanto quanto il rincaro del gasolio per i trattori. E agli agricoltori, qui ed ora, tocca sostenerle entrambe senza che il secondo possa impedire la prima. Forse lo impedirà tra qualche decennio sempre che anche cinesi e indiani facciano la loro parte. Nel frattempo paga e taci”.
Verrebbe da dire: perché non le hai scritte prima queste parole? Perché abbiamo osannato ogni possibile prezzo da pagare in nome di una ipotetica quanto teorica salvezza del pianeta? Perché, nonostante tutto, continua quell’auto flagellazione dell’Occidente ritenuto colpevole dei mali del mondo e quindi obbligato ad assumere su di sé gli oneri maggiori della transizione ecologica?
La protesta degli agricoltori ha, però, diverse cause e i piani della Commissione per il green deal sembrano la classica goccia che fa traboccare il vaso. Nonostante sia il settore produttivo che ha goduto dei maggiori aiuti pubblici i problemi di fondo sono rimasti irrisolti. In particolare la sproporzione di forze tra produttori e compratori si è aggravata con la diffusione della grande distribuzione che riesce ad imporre i suoi prezzi anche facendo leva sulle merci importate. I sussidi non riequilibrano questo divario perché il mercato li incorpora e modifica i prezzi per non cambiare i rapporti di scambio. Con i sussidi, inoltre, si tende a premiare tutti rallentando l’evoluzione di un settore produttivo cruciale, ma composto da tanti produttori, con scarsi capitali e spinto più di altri a non rinnovare tecniche e metodologie di produzione.
Un problema oggettivo è la concorrenza delle importazioni che non risentono degli obblighi e dei limiti cui devono sottostare i produttori europei. C’è però un problema di fondo che riguarda l’Unione europea. Lo ha descritto con chiarezza Alessandro Campi (Messaggero del 5 febbraio): “Il problema riguarda il modello dirigista di governo che la caratterizza e le scelte strategiche che ha fatto negli ultimi anni. Secondo una metodologia che, come nel caso della transizione verde, comincia a somigliare un po’ troppo a quella, tragicamente fallimentare, che fu tipica del socialismo reale: la ragione astratta che costruisce la realtà per via burocratica, la pianificazione dall’alto che si impone sulla dialettica delle forze sociali, il disegno di un mondo migliore da perseguire a tappe forzate senza curarsi degli eventuali costi umani e sociali”.
Si manifesta anche così quello che Ernesto Galli Della Loggia chiama “vuoto utopismo paneuropeo privo di radici” per il quale “la nazione resta il nemico primo” con al centro “l’idea dell’obbligatorio declino dello Stato nazionale e la convinzione messianica della sua futura inevitabile scomparsa”. E se non contano gli stati figuriamoci le categorie produttive. Si è formata una classe dirigente europea in parte dipendente dai governi nazionali e in parte dotata di ampia autonomia decisionale che elabora ed attua le politiche e si sente investita del compito di spingere verso il federalismo attraverso gli uffici di Bruxelles. Un cambio di rotta sarà lento e difficile perché troverà da quella parte una forte opposizione.
Per l’agricoltura il cambiamento non potrà limitarsi a rivedere il green deal. Bisognerà andare molto più a fondo fino ad arrivare ai rapporti tra chi produce e chi acquista. La sfida difficilissima sarà conciliare il libero mercato con il rispetto del lavoro di chi sta sulla terra vigilando sulla corsa ad abbassare i prezzi a danno dei produttori, ma senza pregiudicare la crescita della produttività e salvaguardando la concorrenza. Qualcosa bisognerà sacrificare sicuramente sul piano del commercio internazionale rendendo più onerose le importazioni. Anche i consumatori dovranno riconsiderare le loro opzioni perché spendere per la propria alimentazione ha un valore superiore ad altri tipi di consumo.
Si andrà su questa strada oppure si imboccherà quella dei sussidi e delle compensazioni monetarie? Molto probabilmente quest’ultima sarà la soluzione più praticabile per una unione fatta di tanti governi nazionali diretti da partiti che non hanno deciso cosa fare dell’Europa
Claudio Lombardi
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