La RAI nel dubbio cancella tutto anche l’informazione…

La legge sulla cosiddetta par condicio è del febbraio 2000 e sancisce il principio dell’accesso paritario alla comunicazione radiotelevisiva fra tutte le forze politiche. L’applicazione concreta di questo principio è demandata all’azione di tre soggetti: la Commissione parlamentare per la vigilanza sulla RAI, l’Autorità di garanzia per le comunicazioni e il Consiglio di amministrazione della RAI (più il direttore generale). Nell’ambito di quello che prevede la legge ogni organismo può concorrere all’attuazione concreta del principio che diventa più rilevante in occasione delle campagne elettorali.

Come è noto l’esigenza di un accesso tendenzialmente paritario nasce dalla disparità dei mezzi a disposizione di alcuni dei soggetti che partecipano alla politica negli ultimi 15 anni. In particolare il problema è sorto quando ci si è resi conto che Silvio Berlusconi, disponendo del controllo di tre reti televisive (oltre che di numerosi altri canali di comunicazione), poteva godere di un vantaggio su altri raggruppamenti politici che andava limitato con il tentativo di imporre un accesso il più possibile uguale per tutti. Purtroppo la disparità si è accentuata con il passare degli anni e si è aggravata ogni volta che Berlusconi ha assunto la carica di Presidente del Consiglio poiché al controllo delle tre reti televisive di proprietà privata si è aggiunto il controllo politico, in qualità di capo del Governo, sui canali radiotelevisivi pubblici. Infatti è risaputo che il governo della RAI-TV discende direttamente dall’azione della maggioranza parlamentare e, quindi, del Governo che questa esprime. Non vi è un’ampia autonomia dell’azienda radiotelevisiva di proprietà dello Stato dato che lo stesso Consiglio di amministrazione è di nomina politica così come, di fatto, tutti gli incarichi dirigenziali. Nessuno ha mai spiegato bene perché proprietà dello Stato debba equivalere a disponibilità nelle mani dei partiti che hanno sempre preteso di decidere tutto nella RAI. Ovvio, si tratta di partiti già ben rappresentati e consolidati.

Quindi non bisogna dimenticare che una sproporzione di forze vi è sempre quando si confrontano nella campagna elettorale forze politiche strutturate  e presenti in tutte le assemblee elettive e nei governi locali, regionali e nazionale ed altre che non lo sono. Si tratta di una disparità “strutturale” che è molto difficile contrastare, ma che può essere limitata in tanti modi. Uno di questi è la legge sull’accesso alla comunicazione radio-televisiva pubblica e privata (ma in regime di concessione dato che le frequenze sono comunque controllate dallo Stato).

Occorre dire, però, che con il passare degli anni la formazione e l’informazione si sono concentrate più sui dibattiti in programmazione tutto l’anno che sulle trasmissioni in occasione delle campagne elettorali. I talk show costituiscono una sede di confronto (e di scontro) utile proprio perché ci accompagnano per lunghi periodi, perchè trattano dei temi del giorno, perché gli ospiti rappresentano (più o meno) i diversi punti di vista. Certo, non cambiano molto, ma basterebbe protestare o chiedere una maggiore partecipazione e, forse, la si otterrebbe facilmente perché queste trasmissioni hanno bisogno di ospiti rappresentativi e che abbiano da dire qualcosa di interessante (alcuni noti “urlatori” infatti sono stati relegati a ruoli di comparse). Le tante polemiche sui conduttori arricchiscono l’offerta informativa perché il pubblico conosce bene le varie personalità e, proprio perché sono esse stesse oggetto di dibattito, è in grado di scegliere quella che è di suo maggior gradimento. La pluralità delle personalità e delle trasmissioni e la rotazione dei partecipanti sono garanzia di libertà delle idee e di pluralismo.

Ora, presi da un raptus di “perfezionismo” i nostri cari tre soggetti attuatori della legge hanno pensato bene di spingersi oltre: ognuno ha dato una mano all’altro e alla fine siamo giunti alla soppressione delle nostre trasmissioni di dibattiti politici che, ovviamente, non riguardavano solo i temi della campagna elettorale e che avevano assunto un valore prettamente informativo e di orientamento con un pregevole seguito di dibattito pubblico a televisori spenti.

Presupponendo una assoluta condizionabilità dei telespettatori i nostri tre soggetti hanno pensato bene di usare la bilancia di precisione (all’inizio) e poi, visto che era difficile pesare e misurare tutto, l’ultimo della lista – il direttore generale della RAI– si è sentito in dovere di spegnere del tutto le trasmissioni. Perché? Fantasia esaurita, paura di sbagliare, inesperienza, attacco d’ansia? Non si sa.

Comunque a questo punto bisogna chiedersi se noi cittadini siamo considerati poco intelligenti, non in grado di ascoltare il dibattito che scegliamo in libertà fra i diversi previsti oppure se ci vogliono togliere quelle sedi di confronto nelle quali il contraddittorio ha sempre fatto emergere pregi e difetti dei diversi ospiti non tutti politici per la verità.

Infatti non possiamo-dobbiamo ascoltare più un sindacalista, un economista, un giurista, uno scienziato, ma solo un candidato alla presidenza di una regione.

Perché? A qualcuno possiamo dire che della nostra mente ci occupiamo noi e che il compito di tutti i soggetti che hanno responsabilità istituzionali e amministrative (molto ben retribuite) è garantire il pluralismo e la libertà dell’informazione e che se non ne sono capaci se ne devono andare via ?

Questa decisione offende l’intelligenza degli italiani e dimostra l’inconsistenza di chi è messo a capo di apparati e istituzioni superiori alle sue capacità. Se di questo si tratta, ovviamente, e non dell’intenzione di farci abituare a rinunciare alla nostra capacità di scegliere per poi rifilarci idee predigerite e luoghi comuni. Contro chi ha queste intenzioni dovremmo batterci senza perdere tempo.

Civicolab

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