La Scozia e i rischi delle secessioni (di Salvatore Sinagra)
Il prossimo 18 settembre gli scozzesi si esprimeranno sull’indipendenza. Già in due precedenti occasioni – nel 1979 e nel 1997 – un referendum con analogo quesito ha vinto e ha portato un governo e un primo ministro scozzesi.
La posta in gioco è sicuramente alta ma non è chiaro quali sarebbero gli effetti di un’eventuale vittoria del Si, visto che gli indipendentisti non vogliono comunque rinunciare alla sterlina. Forse Glasgow pretenderebbe più margini di manovra sulle politiche fiscali, forse si perverrebbe ad uno stato federale.
E’ evidente che l’insoddisfazione degli scozzesi negli ultimi 40 anni è cresciuta molto: pensano di essere stati ridimensionati dalla fine dell’impero, mentre Londra è riuscita a conservare un ruolo nello scacchiere economico mondiale, cambiando pelle, grazie alla City. Inoltre gli scozzesi non hanno mai digerito le politiche liberiste e considerano i tre principali partiti britannici troppo simili, troppo inglesi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è l’attuale esecutivo liberal-conservatore: Cameron governa con stile thatcheriano la Gran Bretagna, ma i conservatori in Scozia hanno guadagnato un solo seggio su 59 alle ultime elezioni generali britanniche.
La vicenda scozzese non poteva che spaccare il fronte dei progressisti ed anche quello degli europeisti. Non sono pochi quelli che per convinzioni economiche o per fede nell’UE sarebbero contenti di vedere andare in frantumi la Gran Bretagna tra le mani di Cameron, senza chiedersi quali potrebbero essere le conseguenze di ciò. Si pensi al caso della Spagna, dove i catalani vorrebbero tenere analoga consultazione, ma Madrid non la consente; oppure al Belgio dove Nuova Alleanza Fiamminga vuole l’indipendenza delle Fiandre “nel quadro dell’Unione Europea” ed a molti Stati dell’est europeo, che per eterogeneità linguistica ricordano molto l’Ucraina.
È ragionevole pensare che la secessione scozzese potrebbe provocare un effetto domino, affievolire ulteriormente gli Stati nazione e condurre, anche l’Europa, dopo l’Africa, l’Ucraina e il medio-oriente in quello che alcuni studiosi della globalizzazione chiamano Nuovo Medioevo. Anche se autorevoli commentatori ricordano la particolarità della situazione del Regno Unito nel quale la costituzione consente il referendum sull’indipendenza non c’è da illudersi che gli altri movimenti indipendentisti si muovano in base a ciò che le rispettive costituzioni consentono oppure no.
Forse qualcuno sogna Londra fuori dall’UE e Glasgow nell’Euro, ma ciò sarebbe molto difficile, perché la Scozia non succederebbe alla Gran Bretagna in tutti i suoi rapporti, dovrebbe chiedere di aderire all’UE e probabilmente incontrerebbe il veto di Spagna, Belgio e di mezza Europa dell’est. Ammesso e non concesso che una Scozia indipendente possa rientrare nei parametri di Maastricht.
In realtà, se la Scozia scegliesse la strada dell’indipendenza, per evitare una crisi valutaria Glasgow e Londra sarebbero costrette a collaborare. In ogni caso, per non andare dietro ai sogni, bisogna pur domandarsi se uscire dal Regno Unito renderebbe la Scozia più ricca. Oggi la Scozia appare abbastanza allineata ai valori medi della Gran Bretagna in termini di reddito medio e di tasso di disoccupazione. Se la Scozia si facesse carico della sua quota (in proporzione alla popolazione) del debito pubblico britannico partirebbe con un rapporto debito Pil prossimo al 90%, con un indebitamento pro-capite simile a quello italiano e con un deficit stimato tra il 10 ed il 15%. Alto che parametri di Maastricht!!
E poi che succederebbe con i tassi sul debito scozzese? Oggi la Gran Bretagna paga sui suoi titoli di debito pubblico a dieci anni circa il 2,5%, e, dal 2009 in avanti, gli stessi titoli raramente hanno pagato tassi superiori al 3,5%, (a fronte di deficit che hanno toccato punte del 10-11% del Pil). Per avere un’idea bisogna ricordarsi che gli interessi sui titoli italiani analoghi hanno superato, nei momenti peggiori, il 7%, nonostante l’Italia non abbia mai avuto deficit superiori alla metà di quelli britannici.
Sono differenze che non si spiegano solo con i numeri del debito e del PIL, ma anche con una grande fiducia degli investitori nella Gran Bretagna, difficile da ricondurre solo a parametri economici e che è controverso stimare in che misura sia meritata. Non vi è dubbio che tali benefici siano andati anche agli scozzesi. Una Scozia indipendente li manterrebbe? O non sarebbe più esposta alle speculazioni dei mercati da cui Londra è, per ragioni su cui non c’è unanime consenso, obiettivamente immune?
L’economia scozzese è molto finanziarizzata. Qualche colosso come Royal Bank of Scotland potrebbe trasferire la sua sede e le sue attività più redditizie a Londra. Una spinta ad abbandonare il paese potrebbe essere costituito dall’incertezza sulle normative fiscali e regolamentari che potrebbero essere emanate dal nuovo governo. Nell’ipotesi, a breve termine migliore, che nessuna grande azienda abbandonasse il paese, gli attivi delle banche scozzesi sarebbero pari a circa 12 volte il Pil. Praticamente la Scozia sarebbe una nuova Cipro seppure non appesantita da capitali esteri di dubbia provenienza.
Appare assai illusoria la promessa del premier scozzese Salmond di trasformare la Scozia in uno Stato che vive dei proventi del petrolio: 3 miliardi di proventi fiscali che si stima si otterrebbero ogni anno dalle attività petrolifere, infatti, non possono bastare per vivere di rendita. Tanti sono i punti oscuri di un disegno che vorrebbe emulare la Norvegia senza tener conto delle differenze. Ovviamente promettere è facile, ma immaginare tasse sui livelli degli Stati Uniti e welfare scandinavo sembra veramente troppo.
Come suggerisce il buonsenso anche l’eventuale divorzio tra Spagna e Catalogna non sarebbe a costo zero per entrambi. La cosa più probabile, per limitarsi al debito pubblico, sarebbe che sia i titoli della nuova Spagna che quelli della Catalogna pagherebbero più dei titoli della vecchia Spagna.
Insomma i rischi economici e politici dell’indipendentismo sono elevati come sempre accade quando si sconvolge un assetto e bisogna costruirne uno nuovo. Sarebbe quindi preferibile imboccare un’altra strada e chiedere che l’Unione Europea si faccia garante della sussidiarietà perché le secessioni espongono a rischi più grandi, e più concreti, dei benefici che promettono.
Salvatore Sinagra
Alcune imperfezioni nell’articolo, che comunque non cambiano la correttezza dell’analisi: in caso di secessione sarebbero fortemente a rischio sia la sterlina che il ruolo della Banca di Inghilterra; rimarrebbe (forse) il ruolo della regina, ma non è certo un elemento di grande impatto reale. Inoltre il Regno Unito non ha una vera e propria Costituzione scritta, quindi il ruolo del referendum può essere dirimente, non essendovi una norma scritta che lo limita (come è il caso infatti della Spagna). C’è da aggiungere ai punti critici sollevati dall’articolo (sui quali concordo) anche il fatto che il nuovo stato non avrebbe alcuna collocazione internazionale. Non sarebbe automaticamente nella UE né tantomeno nella NATO o nell’ONU. Tralasciando il caso dell’ONU, l’iter di ingresso nella UE o nella NATO non è affatto celere, anzi è piuttosto complesso e lungo. Inoltre nessuno Stato membro della UE è disposto oggi a concedere alla Scozia i privilegi che a suo tempo (sbagliando) furono concessi al Regno Unito. Insomma, un futuro poco roseo per un eventuale nuovo Stato. Molto però andrebbe aggiunto sulle responsabilità dei governi del Regno Unito, tutti centrati sulla supremazia di Londra e dell’Inghilterra, nonché sull’assenza di una direzione politica della UE che abbia saputo limitare questi processi. La scelta di fondo (dai tempi di Maastricht) di privilegiare gli aspetti economici e finanziari all’interno della UE, senza un vero progetto politico strategico unitario, sta facendo disintegrare l’Europa di fronte alla prima e seria crisi economica della sua storia. Come si può ipotizzare oggi, come fa l’autore, un ruolo di garante della UE rispetto alla sussidiarietà? La stessa UE che di fatto sta facendo fallire la Grecia (Cipro è già fallito, anche se nessuno lo dice) in omaggio a teorie finanziarie mosse dall’interesse della Germania e delle grandi banche? Non è una prospettiva consolante, anzi.