La Terza via tra mito e realtà
Tra una crisi e una migrazione “epocale” in Europa è sempre vivo il dibattito sulle identità politiche fra le quali quella della sinistra è costantemente sotto l’occhio dei riflettori. A pensarci bene l’ultima vera svolta della sinistra può farsi risalire alla “terza via”. Di cosa si tratta? Di un nuovo corso della sinistra inaugurato dopo la fine della guerra fredda da Clinton negli Stati Uniti, da Blair in Gran Bretagna e da Schrӧder in Germania. Tre leader che si sono affermati dopo anni di successi di liberali e conservatori. Nessun leader riconosciuto in Italia, ma c’è chi vede in Renzi il possibile interprete della terza via in chiave italica.
Sicuramente la terza via ha avuto il tratto unificante di una nuova comunicazione politica, diversa da quella della tradizionale sinistra. Sul piano delle politiche pubbliche, invece, tante sono state le differenze tra i suoi maggiori esponenti.
Clinton ha rinunciato, in perfetta continuità con Reagan e Bush padre, a regolamentare il mondo della finanza e l’abolizione del Glass Steagal Act del 1999 è un momento importante di questa scelta. Però ha anche deciso l’innalzamento del salario minimo nazionale e un programma pubblico di estensione della copertura sanitaria a ben 5 milioni di bambini. Inoltre tutti gli interventi di contrasto del deficit di bilancio non sono stati finanziati con tagli ai servizi, ma con aumenti di tasse. In sostanza si tratta di un mix di deregolamentazione dell’economia e di meccanismi di ridistribuzione dei profitti.
Blair ha fatto, con il suo New Labour della terza via un brand. Si è sempre definito socialista, ma con il distinguo di un’attenzione alla libertà della persona ben diversa da quello di chi l’aveva preceduto alla guida del partito. Non ha stravolto particolarmente il paese e non ha messo in discussione molti dei cambiamenti dell’era Thatcher. E’ criticato da una fetta dell’ala sinistra del suo partito perché ha introdotto in Gran Bretagna le tasse universitarie fino ad allora inesistenti, anche se prima che venissero drasticamente innalzate da Cameron erano assolutamente tollerabili, e perché ha più volte fatto affermazioni non troppo in linea con la “pancia” del labour. Tuttavia, ben pochi in Italia sanno che Blair ha imposto contro il volere delle associazioni degli imprenditori un salario minimo nazionale ed ha ripristinato qualche diritto sindacale rinunciando alla clausola di non adesione, pretesa dalla Thatcher, al dialogo sociale lanciato dal presidente della Commissione Europea Jacques Delors ideato per controbilanciare il potere crescente di grande industria e lobby.
Schrӧder è forse l’unico tra i tre che ha modificato sensibilmente in chiave efficientista il proprio paese sacrificando la redistribuzione, anche se sul piano della comunicazione ha cercato di evitare distinguo dalla tradizione socialista: ha affermato che le sue riforme non avrebbero affossato l’economia sociale di mercato ma l’avrebbero salvata dalle incontrollabili forze della globalizzazione. Ha varato un pacchetto di leggi noto come Agenda 2010, che ha sposato la convinzione che l’azione dello Stato si deve spostare dalle politiche passive di erogazione dei sussidi alle politiche attive. Per questo ha riformato i servizi per l’impiego, ha reso più stringenti le condizioni per ottenere il sussidio di povertà, a partire dalla disponibilità ad accettare lavori anche malpagati, ha abolito l’istituto intermedio tra il sussidio di disoccupazione e quello di povertà ed ha dato fortissimi incentivi ai disoccupati che mettono in piedi un impresa. Il cancelliere tedesco ha tagliato in modo significativo le imposte sui redditi, di una decina di punti percentuali sulle aliquote più basse e di due o tre sulle aliquote più alte. Ha tamponato la perdita di gettito con l’introduzione di una sorta di assicurazione sanitaria e con l’innalzamento delle imposte indirette. I risultati sono stati un rapido declino della disoccupazione ma anche contrazione salariale. Solo marginalmente le riforme di Schrӧder hanno intaccato la normativa sui licenziamenti. Non bisogna poi dimenticare che Schrӧder è stato il cancelliere che ha, per la prima volta nella storia, portato i verdi al governo, realizzando una sua proposta degli anni ottanta, ed ha con grandi investimenti nelle rinnovabili avviato una gigantesca riconversione dell’economia tedesca.
Come si può vedere da questo rapido excursus è difficile capire cosa sia la terza via. Se Schrӧder è, per esempio, accusato di non aver introdotto il salario minimo, che è arrivato in Germania con dieci anni di ritardo, Blair e Clinton hanno fatto esattamente il contrario. Anche sulle tasse le posizioni di Schrӧder sono state assai diverse da quelle di Blair e Clinton. Di certo Schrӧder si è occupato poco di liberalizzazioni del mondo della finanza ed ha in parte regolato l’industria in chiave verde. Tutti e tre i leader hanno investito in istruzione e formazione. Le analogie tra le riforme tedesche e la saga dell’articolo 18 sono, quindi, ampiamente infondate.
Ha ragione Reichlin quando afferma che è necessario ripartire dalla terza via, perché la sinistra degli anni sessanta e settanta era radicata nel fordismo e quindi pensava prioritariamente a chi aveva un lavoro e non ai disoccupati. Eppure anche partendo da questo presupposto, come ricorda Chiara Saraceno, terza via non può significare affermare che dare un sussidio a tutti i disoccupati disincentiva la ricerca di un lavoro, perché seppur in certi contesti basso e giustamente vincolato alla disponibilità di accettare (quasi) qualsiasi lavoro, uno strumento di lotta alla povertà universale esiste in tutta l’Europa occidentale con l’eccezione dell’Italia e della Grecia. Superare il welfare fordista non ha senso se si rinuncia all’universalità. Terza via non può significare tagliare senza sosta la spesa per istruzione e sanità per abbassare le tasse magari partendo dall’IMU, le politiche fiscali per la crescita si fanno sulle imposte sui redditi, non sulla prima casa. Terza via può significare affermare che è necessario chiedere responsabilità ai disoccupati se non si finanziano opportunamente le politiche attive del mercato del lavoro; terza via non può significare far finta che buone politiche attive possano da sole far rientrare la disoccupazione ai livelli pre-Lehman Brothers o dare risposte alla disoccupazione di lungo periodo.
Salvatore Sinagra
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