Il lavoro che c’è, le assunzioni che non si fanno

Quante volte si è letto di aziende che cercano lavoratori per determinate mansioni e non li trovano? Molte volte e, al netto dei commenti di chi imputa ad una errata ricerca le cause delle mancate assunzioni, il problema di una paradossale contraddizione tra le statistiche sulla disoccupazione (specie giovanile) e la domanda di personale che resta insoddisfatta esiste. È vero che la distanza tra richiesta di personale e disponibilità a farsi assumere esiste in molti settori e spesso la causa sta in offerte di lavoro poco interessanti sia per qualità che per retribuzione. Di lavori dequalificati pagati poco ne esistono molti. Il recente caso dei fattorini che consegnano il cibo a domicilio (i vari Foodora, Deliveroo ecc) ha messo in luce una tipologia di lavoro faticoso, rischioso e malpagato. Un lavoro però svolto soprattutto da italiani. Non c’è dunque bisogno di ricorrere ai soliti esempi di sfruttamento di manodopera straniera nei campi o nell’edilizia per capire che un problema c’è e che tocca anche figure professionali come gli avvocati, gli architetti, i medici spesso impegnati in collaborazioni gratuite o a prezzi stracciati nella speranza di entrare nel giro giusto per un lavoro meglio pagato. Proprio per questo sorprendono i numerosi casi nei quali un lavoro interessante e ben pagato viene offerto, ma non si riesce ad assumere.

Un’indagine di Milena Gabanelli pubblicata sul Corriere della Sera in questi giorni affronta l’argomento non in generale, ma centrando l’attenzione solo sulla parte che riguarda la ricerca di tecnici qualificati. La previsione è che nei prossimi cinque anni ci sarà bisogno di oltre 150 mila persone nei settori chiave della meccanica, della chimica, del tessile, dell’alimentare e dell’Ict. Il problema è che non c’è una corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e quelle richieste dalle aziende. Il nodo è quindi quello della formazione che, nel caso italiano, è particolarmente carente.

Il primo gradino è quello degli istituti tecnici che però da sempre non vengono considerati una scelta di primo livello per i giovani italiani. Nell’articolo si ricorda che nell’ultimo decennio le scuole superiori che formano geometri, periti o ragionieri hanno perso quasi 120 mila studenti, mentre, invece, sono aumentati i liceali. Ciò significa che resiste un pregiudizio culturale sia verso il lavoro manuale che verso le professioni tecniche. Un pregiudizio che spinge ancora i giovani verso i licei che hanno come unico sbocco l’università o il pubblico impiego. Ma è noto che anche un titolo universitario in determinate discipline non garantisce un lavoro. Basti pensare all’esorbitante numero di avvocati passati dai circa 48 mila degli anni Ottanta agli oltre 235 mila di oggi.

Tuttavia, anche i diplomati degli istituti tecnici non sono completamente formati. Occorre un passaggio successivo rappresentato in Italia o dall’università o dagli Istituti Tecnici Superiori, gli ITS. Sono 95 e servono proprio per completare la formazione di tecnici qualificati (secondo il Miur l’82% dei diplomati ha trovato lavoro entro un anno dal diploma).

Gli ITS non sono scuole pubbliche, ma fondazioni che coinvolgono imprese, enti pubblici, centri di ricerca, associazioni di categoria. Si avvalgono quindi di fondi pubblici e privati e si basano sul coinvolgimento delle aziende per definire i percorsi formativi. Agli studenti comunque non viene chiesto di pagare i corsi.

Attualmente nei 95 ITS italiani ci sono quasi 10.500 iscritti mentre in Germania gli analoghi istituti di formazione superano il milione di studenti. I numeri parlano da soli e spiegano perché oggi è così difficile reperire sul mercato del lavoro le figure professionali che servono alle imprese.

Il funzionamento degli ITS costa. Il dato presentato nell’articolo della Gabanelli è di 6000 euro l’anno per ogni studente. Buona parte dei docenti proviene dal mondo delle imprese ed è uno dei modi con il quale queste contribuiscono al finanziamento degli istituti.

I fondi arrivano comunque dal Ministero dell’istruzione (Miur), dalle regioni, dalle istituzioni europee e dai privati.

Se si vuole parlare di occupazione guardando avanti e non lagnarsi o immaginare fantastiche assunzioni di massa in impieghi statali la strada della formazione è quella che appare più sensata e il miglior investimento per costruire qualcosa di duraturo

Claudio Lombardi

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