Le elezioni Usa e noi europei
Siamo arrivati al momento cruciale. La sera del 3 novembre si dovrebbe sapere chi sarà il Presidente degli Stati Uniti. Il condizionale è d’obbligo vista la complessità delle procedure elettorali e viste le dichiarazioni ostili di Trump sul voto per posta. Dopo un avvio incerto i democratici si sono compattati sull’unico candidato capace di attirare il consenso del partito in una competizione con i repubblicani accesa come non mai.
Che Trump sia stato un presidente divisivo è un dato di fatto. Lungi dal rappresentare tutti gli americani, ha colto ogni occasione per esacerbare gli animi ed estremizzare tutti i contrasti che fanno parte della storia e dell’identità degli Usa. Ha persino evocato la mobilitazione di un’organizzazione che abbraccia la violenza (i suprematisti bianchi) invitando i suoi appartenenti a stare pronti (stay back stand by). Un linguaggio da capobanda, esplicito e diretto. Mai un presidente Usa si era proposto come capo di una fazione estremista e di una sola parte della nazione. Lo stile aggressivo e declamatorio con il quale vinse le elezioni nel 2016 è così diventato anche sostanza facendo di Trump un problema per la democrazia americana.
Nel corso dei quattro anni di presidenza ha condotto una guerra commerciale con buona parte dei partner degli Usa. La Cina è stato il suo principale obiettivo. Così come lo è stata la Germania nel contesto di un’Unione europea alla quale Trump ha più volte manifestato la sua ostilità. Al centro dello scontro i dazi che penalizzavano le produzioni statunitensi, ma anche il forte sbilancio tra esportazioni e importazioni a danno degli Usa. Bisogna dire che il riequilibrio non sembra esserci stato e i dazi non hanno avuto l’effetto sperato.
Trump ha seguito una linea di stampo nazionalista e isolazionista che lo ha portato all’abbandono di alcuni trattati di non proliferazione nucleare e di quello con l’Iran nonché, in generale, del ruolo di leadership dell’Occidente che gli Usa hanno sempre svolto. Il suo slogan di quattro anni fa “Make America great again” è stato contraddetto nei fatti. Da cosa è fatta la grandezza americana se non dall’essere la prima potenza mondiale alleata con i più avanzati sistemi economici e sociali di impronta democratica di tutto il mondo?
I primi alleati sono sempre stati i paesi europei sorti dalla Seconda Guerra Mondiale. Nei loro confronti Trump ha scelto una linea di contrasto dichiarando la sua sfiducia nei confronti di una unione europea come entità politica arrivando ad auspicare l’estensione dell’esempio Brexit. Lo stesso ha fatto persino nei confronti della Nato lo strumento militare che ha tenuto al sicuro i paesi europei negli ultimi settanta anni garantendo l’alleanza con gli Usa.
Trump ha sollevato molta polvere, un po’ come accade negli incontri di wrestling quando sembra che gli sfidanti si stiano massacrando e, invece, stanno solo recitando. In realtà bisognerebbe guardare cosa c’è al di sotto della superficie. Le decisioni di un presidente americano non sono certo farina del suo sacco. Non è possibile pensare che le scelte strategiche della prima potenza mondiale siano nelle mani di un leader eletto ogni quattro anni.
È lecito pensare che l’effettivo campo decisionale di un presidente sia assai più ristretto di ciò che appare dalla rappresentazione pubblica dei suoi poteri. Dietro la figura presidenziale ci sono élite e centri di comando che fanno parte di quello che è stato definito come deep state. Probabilmente Trump ha espresso la parte prevalente in questo periodo storico. Le ha dato una rappresentazione mediatica buona per il grande pubblico.
Ciò significa che gli indirizzi strategici sono sottostanti alla competizione per la presidenza e si formano in relativa autonomia. La probabile elezione di Biden non li muterà nella sostanza, ma nella loro modulazione e nella rappresentazione pubblica. Muterà molto, invece, la politica economica e fiscale. Trump ha puntato sui tagli, delle prestazioni pubbliche e delle imposte su imprese e redditi elevati. Biden farà il contrario nei limiti di un riformismo non radicale bensì ragionevole.
La competizione con la Cina è nei fatti e durerà per molti anni ancora. Non è pensabile che un cambio di presidente farà tornare il mondo alla globalizzazione soft conosciuta nei decenni della rapida ascesa della potenza economica cinese. Il controllo dei mari in Asia segnerà nel prossimo futuro le strategie delle maggiori potenze e bisogna solo sperare che non siano il teatro di un confronto militare. Tuttavia le condizioni si stanno creando anche per questo scenario.
La spinta ad ostacolare l’unione europea con l’egemonia del duo Francia – Germania è nei fatti anch’essa perché tocca gli equilibri geopolitici dell’Occidente e i rapporti economici al suo interno. Sicuramente Biden ricucirà le relazioni con gli alleati europei. Difficilmente favorirà il rafforzamento dell’Unione europea. Anche nel Medio Oriente è difficile che gli Usa lascino emergere una potenza locale come leader di quella parte del mondo.
Le cose sono sempre più complesse di come vengono rappresentate sugli schermi televisivi o dei nostri computer. Che Trump non sia rieletto è probabile ed auspicabile perché è un personaggio privo delle doti di equilibrio e lungimiranza che dovrebbe avere la persona che rappresenta la prima potenza mondiale. Se vincerà Biden per noi europei sarà un evento positivo, ma non ci esimerà dal perseguire con maggiore determinazione l’obiettivo di una Europa che riesca ad essere anche una potenza mondiale oltre che un grande mercato di 500 milioni di persone.
Se un merito hanno avuto le crisi che si sono succedute dal 2008 ad oggi è stato quello di mostrare la vulnerabilità di un’Europa divisa e priva di forza politica (e militare). L’epoca delle buone parole e dei capolavori diplomatici è finita e anche un presidente come Trump ci ha fatto capire quanto sia precario ritrovarsi disuniti e confusi di fronte a soggetti mondiali determinati a lottare per la leadership
Claudio Lombardi
Condivido molto l’analisi delle scelte politiche di Trump durante i quattro anni di presidenza. Scelte scellerate e apparentemente controproducenti per gli USA, visto che colpiscono anche il fronte delle alleanze più strette. Purtroppo sono scelte di politica internazionale che interessano molto poco l’elettorato americano, interessato quasi esclusivamente ai problemi interni. Tipo la costruzione del muro con il Messico e la scelta di aumentare i dazi sui prodotti esteri. Speriamo bene, perché le ultime proiezioni lo danno in recupero negli stati critici, quelli in bilico e che faranno la differenza al momento dello spoglio elettorale. Spero fortemente di essere smentito dai risultati finali.