Le guerre di Mosca nei ricordi di un cronista
Dalla Cecenia alla Georgia fino all’Ucraina: istantanee dalle atrocità (e dalla terribile inutilità) delle guerre di Putin. Nelle pieghe della Storia si riaffaccia la vanità di un potere che non accetta limiti. E teme qualunque libertà.
Passato il cancello di ferro, nella parte vecchia del cimitero di Mozdok, le tombe dei coreani immigrati da chissà dove negli anni sovietici si distinguono subito: poche lapidi di granito nero, lucide sotto la pioggia lieve del mattino. Qualche decina di metri più oltre, la geometria di vialetti e ordinate cappelle di pietra si perde dentro una landa desolata e disordinata di croci, tumuli e terra rimossa. Nella parte nuova poche donne si aggirano, sistemano fiori di plastica e sostano in silenzio davanti alle lapidi. Tra loro, Irina è venuta a salutare il figlio, «morto per la droga», dice, e non aveva ancora venti anni.
Il perimetro del cimitero finisce qui, più oltre il passo è sbarrato da una doppia barriera di filo spinato, e quello che vediamo da lontano sembra un accampamento disordinato intorno a un grande scavo. La notte – dice Irina – vengono i soldati con i camion, scaricano, i bulldozer scavano la terra e poi riempiono le fosse. Tutta la notte su e giù, si sente il rumore dei motori e delle benne. «Dicono che lì seppelliscono i banditi, i ceceni morti in combattimento». Ma laggiù è territorio militare: nessuno, nemmeno di giorno, si può avvicinare.
Mozdok, con il suo cimitero dei banditi è la retrovia russa della prima guerra cecena: la devastante campagna militare scatenata tra il ’94 e il ’95 dalle truppe di Mosca contro i separatisti musulmani di Grozny guidati dal generale ribelle Dudaev. Allora, da questa sonnolenta periferia dell’impero potevamo decifrare anche un modello per le avventure imperiali degli eredi del sovietismo, con i bombardamenti e la distruzione sistematica delle città, con numeri agghiaccianti e impossibili da verificare: 30mila o forse 100mila vittime civili, migliaia di guerriglieri uccisi o passati per le armi, un esercito di mezzo milione di persone costrette a lasciare campagne e villaggi per vagare in terre inospitali e desolate, da un confine all’altro, da una repubblica caucasica all’altra.
Una coltre di silenzio e di vergogna copre anche i militari russi uccisi in battaglia: quei “ragazzi di zinco” di cui scrive la giornalista premio Nobel Svjatlana Aleksievic. Se i banditi ceceni vengono sepolti nelle fosse comuni di Mozdok o dati in pasto al fuoco tra le rovine di Grozny, i giovani russi raggiungono le famiglie in lutto sigillati dentro bare di metallo, per essere subito consegnati all’oblio di una morte senza testimoni. Nulla di nuovo sotto il cielo: nella grande guerra patriottica di Stalin, eroismo e ferocia sono due facce di una stessa medaglia: mentre la bandiera rossa sventolava sulle rovine del Reichstag, i soldati russi catturati dai nazisti e scampati alla prigionia venivano considerati poco meno che traditori e segnati da un incancellabile marchio di infamia.
Da Mozdok e dalle sue strade ben ordinate vedevamo allora gli effetti dissimulati delle guerre scatenate contro quello che i russi chiamano il “vicino estero”: le repubbliche ex sovietiche che ebbero l’ardire di proclamare l’indipendenza da Mosca. Nemmeno il tempo di sostituire la bandiera rossa del comunismo con il tricolore della vecchia Russia, ed ecco che inizia la campagna del Cremlino per la riconquista dell’antico territorio imperiale. In Georgia la guerra fu preventiva: tra il ’91 e il ’93, nella fase dei troubles che precedette la cosiddetta rivoluzione delle rose, due ampi territori si resero indipendenti e furono strappati alla Repubblica con il sostegno armato di Mosca: prima l’Ossezia del sud, a pochi chilometri da Tblisi, poi l’Abkasia, una regione montagnosa all’estremo nord del Paese.
Queste sono terre senza pace. Nell’agosto del 2008, il presidente georgiano Saak’ashvili ebbe l’ardire e la sventatezza di tentare la riconquista dell’ Ossezia del Sud e fu respinto con perdite sanguinose dalla fulminea reazione russa. Fu la cosiddetta guerra dei cinque giorni. Allora, lungo la linea di combattimenti, si stendeva davanti ai nostri occhi lo stesso doloroso panorama che avevamo visto dieci anni prima sul fronte ceceno: case centrate dagli obici e annerite dagli incendi, campi dissodati dai cingoli dei carri armati, stalle sventrate, una terra di nessuno disinfettata dalla pulizia etnica e una folla dolente di poveri contadini in fuga dalle campagne e accampati alla periferia della capitale.
L’azzardo costò la carriera politica al presuntuoso presidente e aggiunse nuova derelitta popolazione ai campi profughi della guerra precedente. La Russia di Putin entrò nel conflitto con una massiccia invasione terrestre, aerea e marittima, e come bottino di guerra riconobbe unilateralmente l’indipendenza dell’Ossezia del sud e dell’Abkasia. Lo schema è identico a quello duplicato in più vasta scala con le Repubbliche autoproclamate del Donbass e oggi riconosciute come Stati indipendenti da Putin. Forza militare contro diritto internazionale: un anno fa la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Russia mantiene il “controllo diretto” sulle regioni separatiste ed è responsabile delle gravi violazioni dei diritti umani che si verificano nei due territori.
Da quel cimitero circondato di filo spinato sono trascorsi venticinque anni. A Mozdok era allora collocato il quartier generale dell’armata russa che combatteva in Cecenia, e a Mozdok la nostra piccola troupe cercava un lasciapassare per entrare nella zona di guerra. Nei vasti piazzali della caserma sciamavano gruppi di giovani soldati, le divise polverose, le giacche slacciate. Bottiglie di birra accatastate sotto le scale dei dormitori e negli angoli degli edifici, dalle cucine l’odore del rancio. Di ufficio in ufficio, pallottolieri di legno colorato e foto di famiglia su scrivanie ordinate, passi felpati e porte sbattute, come in un qualsiasi ministero di Mosca. E poi segretarie gentili, ufficiali sbrigativi e scontrosi, un senso diffuso di stanchezza e di tragica inutilità.
Quella guerra – la prima guerra cecena – andò male per l’Impero. L’uomo di Mosca era vecchio e stanco, la truppa demotivata e impaurita. Oltre le rovine sanguinose di un intero Paese, nel maggio del 1997, fu firmato a Mosca un trattato «sulla pace e sui principi delle relazioni russo cecene», che secondo le parti avrebbe eliminato qualsiasi motivo di cattive relazioni tra Mosca e Grozny, e mai pubblica dichiarazione fu più bugiarda.
Tre anni dopo ci pensò Vladimir Putin a «inseguire i terroristi fin dentro il cesso», scatenando una nuova guerra di conquista in un inferno di ferro e di fuoco. Oggi la Cecenia domata è il vassallo più fedele di Mosca, qui regna con pugno di ferro l’ultimo rampollo della famiglia mafiosa dei Kadyrov, da qui partono i commandos incaricati del lavoro sporco nell’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2003, Grozny, ridotta a un cumulo di macerie, fu definita dall’Onu «la città più devastata del mondo». Guardatela, oggi, la stessa capitale ricostruita dal nulla: ordinata, moderna e silenziosa, piena di grattacieli e attraversata da ampie strade. Una provincia inginocchiata dell’impero russo.
Flavio Fusi (tratto da www.succedeoggi.it)
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