Le scomode verità dell’Italia

Il motto “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” reso celebre da Antonio Gramsci (e da questi attribuito a Romain Rolland), è una splendida sintesi di cultura e vita. Prima bisogna analizzare le situazioni nella loro cruda realtà, poi si deve passare all’azione con spirito costruttivo.

Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo saggio (“Le cose che non ci diciamo” Garzanti) segue questo indirizzo. La sua analisi è lucida e per niente consolatoria. Basta scorrere l’elenco dei capitoli per comprenderne il taglio:

1.Vivere al di sopra dei propri mezzi (senza confessarlo). 2. Il futuro non esiste, tanto vale rovinarlo. 3. Le virtù nascoste della pandemia. 4. L’inganno invisibile dei bonus che non si negano a nessuno. 5. La cattiva coscienza di chi ha guadagnato di più e pagato meno tasse. 6. Nel segno di Giove, il ritorno dello Stato imprenditore. 7. La concorrenza fa crescere dunque mettiamola al bando. 8. Il capitale umano è importante? Sì investiamo in legno e acciaio. 9. Le vittime dimenticate del virus e le nuove povertà. 10. L’ipocrisia dello smart working e la vacanza del pubblico impiego. 11. La ferita aperta e i troppi silenzi milanesi.

E’ chiarissima una forte critica alla situazione italiana che va molto oltre le vicende della pandemia. Il filo conduttore di de Bortoli è che in Italia non si dice la verità, ma la si camuffa perché dirla porterebbe ad assumersi delle responsabilità e ad avere un indirizzo serio e coerente. Prendiamo le prime righe del saggio: “un Paese che investe poco, come il nostro, vive di rendita. Sul patrimonio accumulato in passato da genitori e nonni”. È una verità che conosciamo bene e che, ovviamente, non si riferisce ad ogni singolo italiano, ma alla nazione nel suo complesso. Riconoscerla dovrebbe portare all’uso responsabile delle risorse. Dovrebbe, ma non accade perché avanza una narrazione che tende a sollevarci da qualsiasi responsabilità attribuendo le colpe ad altri. La triade Europa, globalizzazione, poteri forti funziona sempre. Si genera così una specie di vittimismo di massa che indebolisce e demotiva le capacità di reazione alle avversità.

La traduzione concreta di questo atteggiamento è il debito pubblico. Con la pandemia e con l’incredibile aumento dell’erogazione di risorse pubbliche che ha portato si sta diffondendo l’impressione che queste possano non finire mai. Prevalgono così l’attesa e la passività.

Con la decisione dell’Europa di dare vita al Next Generation EU queste aspettative si sono rinforzate. Il miraggio di una valanga di soldi in arrivo non è stata intesa come enorme occasione di rinascita e di riparazione dei problemi portati da decenni di sviluppo distorto e di declino, ma come una carta di credito che ci è stata regalata aperta a tutti i desideri dei portatori di interessi.

L’impressione che molte formazioni politiche trasmettono è che la soluzione sia promettere tutto ciò che può portare al consenso di elettori disabituati alla serietà e molto sensibili agli slogan diffusi attraverso i social e la tv.

Non ne è andato esente nemmeno il governo attuale specialmente nei primi mesi della pandemia. Le affermazioni che nessuno avrebbe perso reddito e lavoro forse ancora qualcuno se le ricorda così come quella che lo Stato (ed erano i primi di aprile!) avrebbe immesso nell’economia 750 miliardi di euro in poche settimane.

Anche la distribuzione di sussidi e bonus a pioggia o di tagli fiscali indiscriminati a chiunque a prescindere dalle perdite e dai guadagni deriva dallo stesso peccato originario: governare inseguendo il consenso degli elettori senza dire verità scomode. Una tra queste è che la pandemia ha acuito i mali dell’Italia accentuando le diseguaglianze a partire dall’istruzione. Un anno scolastico è stato perso. Inutile andare dietro alle ipocrisie delle versioni ufficiali: la scuola italiana aveva già difficoltà ad assicurare un regolare svolgimento delle lezioni prima dell’emergenza e non si è certo trasformata in poche settimane in un campus universitario super tecnologico. Non si tratta dell’impegno degli insegnanti (che pure ha avuto molti buchi per ragioni oggettive e soggettive), ma del divario tra zone del Paese dove arriva una rete internet efficiente ed altre che ne sono prive e del divario ancora più grande tra famiglie che hanno potuto assicurare ai figli strumenti e ambienti adatti a seguire le lezioni ed altre che non hanno potuto farlo. E si tratta della semplice verità che la scuola non è trasmissione passiva di conoscenze, ma comunità educativa fondata sull’esperienza personale e sull’interazione.

Finora il “pessimismo dell’intelligenza”. Nel saggio di de Bortoli però ci sono molti richiami anche all’ottimismo della volontà. Lo spirito è che, partendo dalla presa d’atto della realtà ed utilizzando le enormi risorse (materiali ed immateriali) dell’Italia, si possa mettere in movimento un capitale umano motivato e determinato che già esiste e che deve essere messo al centro dell’attenzione per poterlo far crescere. Questo dovrà essere il protagonista capace di trainare l’uscita dalla crisi. Come accadde già dopo la Seconda Guerra Mondiale quando il Piano Marshall sosteneva una ripresa del lavoro che coinvolgeva tutta la nazione. Spesso le analisi critiche mettono al centro i difetti degli italiani come se questi fossero il buco nero nel quale precipita e si annulla ogni altra caratteristica della società italiana. Non è così e per ripartire occorre una grande opera di ristrutturazione dello Stato, della cultura e delle relazioni sociali. La pandemia ci da l’occasione e la motivazione per farlo

Claudio Lombardi

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