L’economia al tempo del Covid
Il 2020 sarà un anno difficile con l’economia in contrazione quasi ovunque. Corriamo però un grosso rischio: compiere scelte sbagliate, guardando troppo al breve o facendoci condizionare da un sentore comune che non sempre si fonda su analisi sensate.
L’anno in corso si chiuderà secondo il Fondo Monetario Internazionale con un drammatico crollo del PIL, nell’ordine del 10% in Gran Bretagna, Italia, Francia, Grecia e Portogallo, e del 13% in Spagna Al netto di Stati in condizioni anomale simili contrazioni del PIL si rilevano solo in alcuni paesi sudamericani, in Messico e in India. Il dato del crollo del 2020 si deve leggere insieme almeno ad altri tre elementi: il rimbalzo del PIL a cui si assisterà nel 2021, la crescita della disoccupazione e le disuguaglianze. Giusto per avere un’idea, anche se molto parziale, gli Stati Uniti, un paese storicamente a bassa disoccupazione, sempre secondo il Fondo Monetario Internazionale, a fine 2020 si dovrebbero trovare con un tasso di disoccupazione dell’8,9%, lo stesso della Francia che storicamente però è un paese a media disoccupazione. Più precise analisi saranno possibili quando saranno disponibili i dati sulla disoccupazione al 2021, che, presumibilmente, saranno più comparabili perché non condizionati da politiche di breve come il blocco dei licenziamenti.
Un dato non trascurabile per noi italiani è che nonostante l’Italia sia tra i paesi per il momento più gravati dalla crisi guardando il PIL, i nostri tassi sul debito rimangono molto bassi. I mercati vedono chiaramente che questa volta l’intervento della BCE è stato tempestivo e con il Recovery Fund e altri strumenti c’è stata anche una risposta fiscale dell’Unione Europea. Non siamo tornati al 2011 e questo non era scontato.
Un dubbio dev’essere fugato. Non esiste una dicotomia tra paesi che salvano le vite dei loro cittadini e paesi che salvano le economie. L’ex premier giapponese Abe, il premier britannico Johnson e quello svedese Lofven volevano di fatto passare sopra la pandemia pensando forse di rubare mercato agli altri paesi. Nessuno di loro finirà sui libri di storia per le azzeccate politiche economiche.
Perché quindi non rallentare le attività economiche nella speranza di salvare il PIL può essere una scelta sbagliata anche per il PIL?
Primo. I governi che provano a non contrastare la pandemia nella speranza di far rifiatare l’economia generano una situazione di incertezza che facilmente si tramuta in panico. Danno l’idea di un paese allo sbando, paralizzando consumi e investimenti. Facendo un esempio banale un governo o un presidente di regione potrebbero rifiutarsi di varare misure restrittive per non penalizzare troppo bar e ristoranti, ma questo potrebbe avere due effetti contrastanti: da un lato chi non riesce a rinunciare alla birra della sera va al bar nonostante la pandemia; dall’altro molti cittadini per lunghissimo tempo potrebbero rimanere in casa perché terrorizzati e la paura potrebbe continuare anche quando giornali e governo inizierebbero a raccontarci che gli indicatori sono in miglioramento. Se lo stesso governo che non ha preso adeguate misure quando le cose andavano male mi dice che tutto va bene perché dovrei fidarmi? Da più parti sento dire che i virologi dovrebbero pesare bene le parole e i governi pesare bene le misure per evitare di produrre il panico, ma non c’è nulla che produca più panico di un’autorità pubblica che in prima battuta minimizza i problemi ed alla fine deve riconoscere il fatto compiuto.
Secondo. Prendere misure restrittive in ritardo può poi costringere a soluzioni più estreme o su aree più estese. Probabilmente se a Febbraio oltre che a Codogno fosse stata istituita una zona rossa ad Alzano e Nembro ed in qualche altro comune italiano forse non ci sarebbe stato un lockdown per tutto il paese e oggi la previsione di contrazione del PIL sarebbe del 7% e non del 10%.
Terzo. Non dobbiamo mai dimenticare il peso della reputazione. Negli ultimi trent’anni il valore delle imprese è stato sempre più determinato non già dal solo capitale fisico, ma dagli asset intangibili. Allo stesso modo una gestione discutibile di una crisi sanitaria può far crescere il rischio paese e far crollare gli investimenti. Per esempio, nonostante la buona reputazione della nostra sanità pubblica, un deterioramento della sua immagine potrebbe avere come conseguenza un crollo degli investimenti in settori affini a quello sanitario come è certamente quello del biomedicale.
Quarto. Le attività economiche si distinguono in attività che producono esportazioni – tendenzialmente quelle di imprese industriali e grandi imprese di servizi che possono essere prestati a distanza – e servizi locali (tra cui: bar, ristornati, i locali della movida, le palestre, tutte le attività di cura della persona). Le grandi imprese anzitutto sono inserite in catene del valore globale. La scelta di una grande impresa di non fermarsi, se si fermano i suoi clienti e fornitori stranieri potrebbe essere deleteria anche per l’utile di esercizio. Se si fermano i miei clienti e fornitori io posso andare avanti a pieno regime solo se riesco a rimpiazzarli. Inoltre non bisogna dimenticare che la capacità delle imprese di tenere i battenti aperti si valuta nel medio e nel lungo periodo e di fronte ad un evento dirompente come il Covid 19 i produttori potrebbero rispondere spostando le imprese in paesi con il costo del lavoro più basso. Quando saltò Lehman Brothers c’era la percezione che le aree storicamente più deboli, si pensi al Mezzogiorno d’Italia, potessero rispondere meglio ai problemi perché meno finanziarizzate. Niente di più sbagliato. Le imprese del sud, che mediamente fanno attività a minor valore aggiunto e che hanno minor accesso al credito pagarono un dazio più alto. Mentre pochi anni dopo al nord si vedeva la ripresa, a sud il centro studi Svimez parlava di avanzamento del deserto industriale. Potremmo assistere ad un’ondata di delocalizzazioni quasi per nulla correlata a giorni di lockdown o misure simili.
Sulla distanza di uno o due anni gli impatti della pandemia su un sistema paese, o su un sistema regione, non dipendono linearmente dai giorni di lockdown, ma dai fattori di debolezza delle proprie imprese. Credo che proprio per questo motivo la Svezia di Lofven, che si è rifiutato di prendere misure stringenti, si stima chiuderà il 2020 con una contrazione del PIL del 4,7%, di fatto come la Danimarca (-4,5%) e peggio della Finlandia (-4%). I governi farebbero quindi meglio a scervellarsi di più per tamponare, magari tramite quello che volgarmente viene chiamato Recovery Fund, le fragilità dei propri sistemi produttivi.
Ritornando ai servizi locali come i bar, i ristoranti, le palestre, invece che opporsi a limitazioni temporanee delle attività, occorre avere contezza delle categorie che sono più pregiudicate dalle chiusure e non rimandare chiusure inevitabili in modo che siano quanto più possibili geograficamente limitate. In questo modo sarà più facile intervenire tramite sussidi che servono a far rimanere in piedi le attività. Infine bisognerà tenere presente che sull’arco di tempo di uno o due anni l’accelerazione dello smartworking, ormai inevitabile, avrà impatti potenzialmente drammatici. Dobbiamo, infatti, tenere ben presente che nel medio periodo, molta parte della sorte di bar, ristoranti e attività simili sarà determinata dalla scelta delle grandi imprese di rimanere in Italia e anche di come rimanerci, con quanto smartworking, con quante attività lasciate alle imprese dell’indotto, con quanti soldi lasciati in tasca ai dipendenti.
Ciò che veramente bisogna augurarsi è che non si arrivi ad un nuovo lockdown generale.
Salvatore Sinagra
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