L’Economist dossier Italia: un paese che non cresce
Un anno fa, a giugno del 2011, l’Economist pubblicò un dossier sulla situazione italiana che fece scalpore per il giudizio su Berlusconi identificato come “l’uomo che ha fottuto un intero paese”. In realtà l’analisi era molto più ricca e approfondita. Qui se ne ripropone una sintesi, divisa in quattro parti, utile a comprendere un punto di vista esterno e non coinvolto nelle polemiche politiche nostrane.
Perché l’Italia non cresce
È vero che l’Italia ha evitato il disastro durante l’ultima tempesta, ma è altrettanto vero che la sua economia arranca da decenni. La visione rosea dell’economia italiana poggia su due assunti che sono veri solo a metà. Il primo è che l’Italia sia un paese prevalentemente esportatore, come la Germania. Però, a differenza della Germania, l’Italia ha la bilancia commerciale in rosso dal 2005. La sua base industriale è ancora la sesta al mondo, ma la Gran Bretagna, spesso dipinta come un nano industriale, produce ed esporta più automobili dell’Italia.
Un’altra convinzione radicata è che l’alto livello di risparmio privato, in genere investito in titoli di stato o semplicemente parcheggiato in banca, tiene l’economia al riparo dai guai. In realtà, il 47 per cento del debito pubblico è detenuto all’estero, una percentuale inferiore alla maggior parte dei paesi europei ma non certo ristretta.
È piuttosto la dimensione del debito pubblico (i titoli di stato italiani sono il terzo mercato obbligazionario al mondo) a farne la forza, ma anche la debolezza. Infatti, il costo sostenuto dall’Italia per il suo debito cresce di una quantità pari all’1 per cento del Pil ogni volta che i tassi aumentano di un punto percentuale.
Il problema più grande è però la mancata crescita che è stata la principale debolezza dell’economia italiana negli ultimi vent’anni e la ragione principale è che le imprese hanno un problema di produttività e competitività.
Molti italiani sono convinti che la loro economia sia trainata dal settore manifatturiero e dall’industria, ma, in realtà, il 70 per cento della forza lavoro è occupata nel settore dei servizi.
Negli anni cinquanta e sessanta l’Italia cresceva al ritmo di un paese in via di sviluppo: di norma a un tasso vicino al 10 per cento all’anno. Questo ritmo vertiginoso fu innescato dall’applicazione di nuove tecnologie e dalla grande migrazione interna, soprattutto dal sud al nord del paese (9 milioni di persone tra il 1955 e il 1971) con una grande disponibilità delle persone a lottare per ritagliarsi un posto nella nuova Italia.
Invece, tra il 2001 e il 2005 la produttività del lavoro è cresciuta di un misero 0,1 per cento all’anno, e tra il 2006 e il 2009 è addirittura scesa dello 0,8 per cento all’anno.
L’Italia è invecchiata più in fretta di quasi tutti gli altri paesi ricchi. Secondo le proiezioni attuali, nel 2030 per ogni pensionato ci saranno solo due italiani di età compresa tra i 20 e i 64 anni.
La struttura produttiva è fatta di tante aziende con meno di venti dipendenti e le famiglie proprietarie, ancora molto diffuse, non cedono facilmente il controllo.
Inoltre in Italia si lavora con i contanti e questo grava anche sui costi bancari. Queste due caratteristiche – aziende di piccole dimensioni e uso del contante – facilitano l’evasione fiscale il che aggrava la già molto elevata pressione fiscale.
Elusione fiscale, bassa produttività, imprese a conduzione familiare, mercati dei capitali poco sviluppati, scarsa competitività: sono tutti problemi ben documentati e noti.
Le debolezze economiche del paese riflettono il modo di fare della maggioranza degli italiani. E questo modo di fare, come molte altre cose in questo vecchissimo giovane paese, ha radici profonde. (fine prima parte)
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