L’Economist dossier Italia: le istituzioni

Un anno fa, a giugno del 2011, l’Economist pubblicò un dossier sulla situazione italiana che fece scalpore per il giudizio su Berlusconi identificato come “l’uomo che ha fottuto un intero paese”. In realtà l’analisi era molto più ricca e approfondita. Qui se ne ripropone una sintesi, divisa in quattro parti, utile a comprendere un punto di vista esterno e non coinvolto nelle polemiche politiche nostrane.

 

Istituzioni poco credibili

I confini tra i partiti, la pubblica amministrazione, i mezzi d’informazione, il mondo degli affari e il sistema giudiziario sono simili a nastri sottili che possono essere piegati a piacimento esercitando una pressione minima. Le istituzioni sono indebolite da conflitti d’interessi che spuntano ovunque come funghi. Il fatto che il presidente del consiglio sia il proprietario del più grande impero televisivo del paese è solo il più eclatante.

Negli anni novanta c’era chi pensava che l’Italia fosse alle soglie di una trasformazione istituzionale. Entrando nell’eurozona il paese non poteva più svalutare la sua moneta se mai le esportazioni perdevano competitività, e i governi sarebbero stati costretti a dare una spinta alla produttività. La fine del monopolio di potere della Democrazia cristiana, dopo Mani pulite, doveva permettere all’Italia di diventare una democrazia più normale, con due grandi partiti che si alternano alla guida del paese garantendo un governo stabile.

Tutto questo non è successo. I problemi dell’economia italiana sono sostanzialmente gli stessi di quindici anni fa, anche se ora il coinvolgimento diretto del governo nell’industria è minore. L’Italia non ha un vero bipolarismo: la sinistra è composta da un gruppo di forze politiche dagli interessi contrastanti, che a volte riescono a fare fronte comune per cercare di ottenere una vittoria elettorale, ma che tendono a dividersi subito dopo. Il Popolo della libertà (Pdl), il principale partito di destra, ha formato un governo di coalizione insieme a un’altra forza politica con cui è in disaccordo su problemi essenziali, come il grado di autonomia da concedere alle regioni. In più buona parte degli esponenti del Pdl non sono politici in senso classico ma fan di Berlusconi o suoi ex dipendenti.

Dopo i processi di Mani pulite l’Italia ha compiuto una graduale riforma elettorale, che ha prodotto governi forti con maggioranze più solide. Tuttavia, nel 2005, il governo Berlusconi ha introdotto un sistema a liste bloccate, con la speranza di rendere la sinistra ancora più frammentata di quanto già non fosse. Questo non è avvenuto, ma il nuovo sistema ha portato a un aumento del controllo da parte dei vertici dei partiti e ha messo fine al legame diretto tra gli elettori e i candidati.

In Italia mantenere il carrozzone della politica ha un costo esorbitante. I partiti ricevono un generoso finanziamento per le spese elettorali. Secondo la corte dei conti, tra il 1994 e il 2008 i partiti hanno ricevuto 2,2 miliardi di euro di rimborsi elettorali, ma hanno dimostrato di averne spesi solo 579 milioni. Una lettura cinica delle cifre porterebbe alla conclusione che, in quel periodo, i partiti hanno registrato un profitto di 1,67 miliardi di euro a spese dei contribuenti.

Il conflitto d’interessi colpisce anche il giornalismo e gli affari. Però, mentre nel caso dei giornali è difficile sostenere che in Italia non ci siano abbastanza voci per assicurare il pluralismo, lo stesso non si può dire per la televisione, che è il mezzo attraverso cui s’informa la maggior parte degli italiani. Berlusconi possiede le principali reti commerciali, inoltre il suo governo è in grado di influire sulle nomine alla Rai. Questo doppio controllo concede al presidente del consiglio un potere smisurato sul modo in cui il suo governo viene percepito dai telespettatori.

Freedom House, una ong statunitense, sostiene che il governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006 ha esercitato il controllo su più del 90 per cento dei canali televisivi. Negli ultimi anni non è cambiato molto. Anche se l’inquilino di palazzo Chigi non fosse il proprietario di un impero editoriale e televisivo dominante, la Rai sarebbe comunque condizionata dalla politica. Sette dei nove membri del consiglio d’amministrazione della tv di stato sono eletti da una commissione parlamentare. Trascorrono il loro tempo contrattando la durata dei passaggi televisivi concessi ai rappresentanti dei loro partiti invece di permettere ai giornalisti di essere obiettivi.

Per capire quanto i conflitti blocchino il cambiamento basta considerare la riforma giudiziaria proposta dal governo. I tribunali italiani, per minimizzare il rischio di ingiustizie concedono la possibilità di fare ricorso in appello in ogni grado di giudizio. Questa lodevole intenzione produce però risultati spaventosi. Secondo uno studio del Consiglio europeo, nel 2005 in Italia ci sono voluti in media 1.210 giorni per risolvere ogni disputa contrattuale, mentre in Gran Bretagna ne bastavano 229 e in Francia 331. Da qui la volontà del governo di riformare il sistema giudiziario. Il testo della riforma mescola alcune proposte che potrebbero essere abbastanza utili – come la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici – con altre che risulterebbero disastrose, come la possibilità di denunciare in sede civile i magistrati e i giudici e quella di far decidere ai politici quali casi dovrebbero avere la priorità.

Il presidente del consiglio è in guerra contro i magistrati “comunisti” da quando è entrato in carica, e ormai dedica un giorno alla settimana alla sua battaglia personale contro il potere giudiziario. Di conseguenza non esiste alcuna possibilità che questo governo possa proporre una riforma della giustizia disinteressata. Per quanto riguarda i magistrati, sembra effettivamente che alcuni di loro siano spinti da motivazioni politiche. I magistrati, anche se hanno combattuto la corruzione nella politica, non dovrebbero diventare parlamentari. Dunque una riforma giudiziaria è impossibile, perché le motivazioni di tutti possono essere messe in discussione.

I conflitti d’interessi e i confini ambigui tra le istituzioni sembrano essere la norma, e i poteri invece di essere separati sono mescolati tra loro. Ma tutte queste matasse inestricabili sono poca roba in confronto a quella che riguarda il premier. Certo, una ragione del suo incredibile successo potrebbe essere la simpatia che ispira in tutti quelli che si riconoscono un po’ in lui. (fine quarta parte)

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