L’Economist dossier Italia: meritocrazia e apertura al mondo

Un anno fa, a giugno del 2011, l’Economist pubblicò un dossier sulla situazione italiana che fece scalpore per il giudizio su Berlusconi identificato come “l’uomo che ha fottuto un intero paese”. In realtà l’analisi era molto più ricca e approfondita. Qui se ne ripropone una sintesi, divisa in quattro parti, utile a comprendere un punto di vista esterno e non coinvolto nelle polemiche politiche nostrane.

La meritocrazia non esiste

Il governo trasferisce denaro dai giovani agli anziani, spendendo in pensioni il 14 per cento del Pil, una percentuale più alta di qualsiasi altro paese dell’Ocse. La situazione demografica del paese dovrebbe costituire un grande vantaggio per i ragazzi che, grazie a un tasso di fecondità di 1,4 figli per donna, stanno diventando una rarità. Ma invece di avere più potere contrattuale, sono bloccati dalla gerontocrazia.

Le società che invecchiano devono trovare qualcosa per tenere occupati i lavoratori anziani, ma lasciargli tutti i posti migliori non è una soluzione. Davanti alla prospettiva di dover aspettare fino all’età dei loro nonni per fare carriera, molti dei cervelli più brillanti d’Italia se ne vanno. Forse l’indicatore più sconvolgente della situazione economica è che l’Italia è il primo esportatore di laureati tra i paesi ricchi europei, un fenomeno di solito più comune nei paesi più poveri.

Molti laureati italiani se ne vanno per sfuggire al sistema delle raccomandazioni, o delle conoscenze (spesso di tipo familiare), che regola il mercato del lavoro. È un sistema usato in tutti i paesi, ma l’Italia è diversa per due motivi: le raccomandazioni sono onnipresenti e raramente vengono messe in discussione. Si potrebbe essere tentati di attribuire questa preferenza per le conoscenze personali piuttosto che per le qualifiche professionali al “familismo amorale”, come lo chiamò il sociologo statunitense Edward Banfield. Con le Basi morali di una società arretrata, un libro sulla povertà in Italia meridionale pubblicato nel 1958 ma ancora oggi molto discusso, Banfield sostenne che in Italia i legami familiari sono così stretti da impedire alle persone di unirsi per agire a vantaggio della comunità.

Rispetto ad altri paesi ricchi, l’Italia ha una buona scuola elementare, una scuola secondaria discreta (anche se molto variabile) e pessime università (con una manciata di splendide eccezioni). Per legge, le lauree hanno tutte lo stesso valore, indipendentemente dalle università che le hanno conferite, perciò i potenziali datori di lavoro devono tirare a indovinare quali sono gli studenti migliori.

Il regime delle raccomandazioni imperversa ovunque. Il mercato dei posti di lavoro accademici nelle università pubbliche è profondamente corrotto. È nato un gran numero di corsi di laurea che sembrano progettati unicamente per creare cattedre. I candidati a una cattedra partecipano a concorsi che in realtà non sono né pubblici né competitivi ma fatti solo per dare maggiore credibilità a decisioni che sono già state prese. Un modo per migliorare la situazione potrebbe essere privatizzare alcune università pubbliche, ma questo non è possibile in un paese dove tutte le proposte di riforma, anche di modesta portata, provocano molte proteste. Un’altra possibilità sarebbe rendere più competitive le università pubbliche, ma per il momento, neanche una delle università italiane è tra le prime cento delle due principali classifiche internazionali sull’istruzione superiore.

C’è bisogno di aprirsi al mondo

In questi anni l’Italia è entrata sempre più in contatto con il resto del mondo: indirettamente, con la globalizzazione e, direttamente, attraverso l’immigrazione.

Nei primi anni novanta e nella prima metà dell’ultimo decennio alcuni settori dell’economia erano già stati colpiti duramente dalla concorrenza dei mercati esteri. L’industria tessile e gli altri settori a basso impiego di tecnologia si erano dimostrati molto vulnerabili.

Questo quadro, in ogni caso, è già cambiato. Secondo uno studio della Banca d’Italia, anche prima dell’inizio della crisi finanziaria circa la metà delle aziende con almeno venti impiegati era in ristrutturazione, e il settore manifatturiero aveva riguadagnato la competitività perduta all’inizio del decennio. Un numero impressionante di medie imprese si è trasformato in multinazionali tascabili, come le chiamano gli italiani. Nel 2008 in Italia c’erano 21mila imprese di questo tipo, attive in 150 paesi.

Le aziende italiane più competitive hanno saputo trarre vantaggio dalla globalizzazione. Però l’espansione verso l’estero è stata considerata spesso come la causa della perdita di posti di lavoro e secondo molti imprenditori mandare avanti un’azienda in Italia è un compito così difficile che vorrebbero trasferire l’intera catena produttiva all’estero.

Il secondo modo in cui il mondo ha disturbato l’Italia negli ultimi vent’anni è stato più diretto: le flotte di barconi carichi di migranti in cerca di lavoro. Le tragedie dei barconi hanno distolto l’attenzione da un altro importante cambiamento degli ultimi anni: l’assimilazione in gran parte pacifica di tantissimi immigrati, sia clandestini sia regolari. La percentuale di residenti in Italia nati all’estero è passata dallo 0,8 per cento del 1990 al 7 per cento del 2010. Integrare i migranti in quella che un tempo era una società etnicamente uniforme non è stato facile, ma è andata meglio del previsto. Una parte del merito va riconosciuto alla chiesa cattolica, che ha avuto un ruolo fondamentale, aiutando nel processo di integrazione anche gli immigrati arrivati illegalmente.

In ogni caso l’Italia non può permettersi di guardare al colore della pelle della sua futura forza lavoro. Senza l’immigrazione, nel 2009 la popolazione italiana sarebbe calata di 75mila abitanti. I migranti sono ancora più necessari se si considera che l’occupazione femminile è molto bassa. E così i lavoratori immigrati riempiono i buchi lasciati dalla decrescita della popolazione italiana. (fine terza parte)

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