L’ideologia dell’antipartito. Intervista a Salvatore Lupo
Pubblichiamo stralci di un’intervista di Simonetta Fiori a Salvatore Lupo
«L’antipartito? Non è la soluzione ma il problema. Sono convinto che molte tendenze degenerative non siano state conseguenza di “un eccesso di partito”, ma al contrario della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana»
“Un’ideologia” – l’antipartito – che sin dal fascismo si estende prepotentemente nel sottofondo della storia nazionale, fino a esplodere nel 1993 con la retorica della nuova politica contrapposta alla vecchia – vedi Lega o Forza Italia – ora ripresa quasi in fotocopia dal Movimento 5 Stelle. Un fiume sotterraneo che invade luoghi inaspettati, come la destra eversiva e la P2, le mafie e la nuova camorra organizzata, ma anche – su un versante opposto – il movimento del Sessantotto e più di recente il «partito dei giudici». Con conseguenze talvolta simili, nell’arco degli ultimi vent’anni, «perché i propugnatori del cambiamento hanno dimostrato analoghi se non maggiori difetti della tanto detestata partitocrazia: partiti personali o neopartiti che – sventolando il vessillo della novità e della società civile – sono stati assai meno incisivi dei partiti tradizionali».
Nostalgia per i vecchi partiti? « No, nessuna nostalgia. Però dobbiamo levarci gli occhiali con cui negli ultimi vent’anni abbiamo guardato la storia repubblicana. Non solo nei primi decenni le forze politiche furono in grado di rappresentare davvero l’Italia reale, ma anche negli anni Settanta – a dispetto delle tesi storiografiche prevalenti – fecero cose fondamentali come la riforma delle pensioni, della sanità, della psichiatria, il nuovo diritto di famiglia, e molto altro ancora. E aggiungo: non è forse un caso che tra le rovine fumanti dell’attuale scena pubblica il massimo leader morale, il presidente della Repubblica, sia figlio di quella storia, una personalità cresciuta nel “partito più partito” di tutti».
Lei rintraccia un’analogia con i 5 Stelle. «Grillo porta all’esasperazione i toni dell’antipartito, riprendendo la retorica dei neopartiti: i partiti tradizionali fanno schifo, noi siamo un’altra cosa. Pretende di incarnare il nuovo e ripete slogan coniati dai manifestanti di vent’anni fa. “Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano”, è un’espressione usata dai militanti neofascisti davanti a Montecitorio nel 1993. E poi ritorna la mistica della società civile, una formula fin troppo abusata nell’ultimo ventennio»….Questi movimenti non ammettono di essere una parte tra le altre, appunto “partiti”, ma si pensano come totalità. Noi siamo la società civile – e dunque l’insieme delle persone perbene – voi no. Ora questo procedimento diventa inquietante quando coinvolge la magistratura, che è un potere dello Stato, e dunque non dovrebbe per principio prendere parte».
Di solito l’origine dell’antipartito viene collocata nel movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, tra il 1944 e il 1946. Lei risale ancora più indietro, a Giuseppe Bottai. «Bottai fu il primo a cogliere dentro lo stesso fascismo la dinamica tra antipartito e iperpartito: prima la diffidenza verso il Pnf, sospettato di riprodurre il vecchio mondo prefascista delle parti, poi la sopravvalutazione di quel partito unico che si identifica con lo Stato, ed è qui la nascita del regime.
Questa doppia pulsione la ritroveremo in età repubblicana, specie a destra, con la liquidazione dei partiti come principale ostacolo nel rapporto tra popolo e sovranità».
Tra i più tipici rappresentanti dell’antipartito, negli anni Cinquanta, lei include personalità diverse come Indro Montanelli ed Edoardo Sogno: tutti artefici in vario modo di oscure trame anticomuniste. «Sì, sospettavano che gli scrupoli legalitari della Dc – che si rifiutava di mettere fuori legge i comunisti – dipendessero da solidarietà partitocratiche. E il loro arcinemico era l’iperpartito per eccellenza, il Pci. Non è un caso che l’antipartito fosse diffuso soprattutto nelle correnti culturali e politiche della destra».
Può sorprendere che in questa genealogia dell’antipartito lei arruoli anche la P2, la loggia massonica di Gelli.
«Senza però sposare tesi complottiste. Non penso infatti che la P2 sia stata la centrale dello stragismo, piuttosto un importante campo di comunicazione tra membri dell’establishment. La loggia massonica si proponeva come un pezzo importante della destra che non riusciva a farsi partito.
Se si va a rileggere i documenti della P2, colpisce il tono critico al “professionismo politico corruttore”, “incapace di esprimere gli interessi della società“».
Lei sostiene che lo stesso Grillo, pur totalmente estraneo alla loggia, sia consapevole della curiosa parentela. «È stato lui a dichiarare: “Vedete, io ho messo su una piccola P2 sobria e trasparente. La piduina degli aggrillati”. La sua è una provocazione, ma mostra di saper bene che la loggia massonica fu una forma di antipartito».
Continuando in questa storia nera, tra le forme di antipartito lei inserisce anche la mafia e le Brigate Rosse.
«Sì. Per la mafia occorre una distinzione: fino a un certo punto rappresentò una struttura di servizio per la macchina politica, poi si mise in proprio per una drammatica scalata al potere in concorrenza con i partiti».
Ma sarebbe sbagliato liquidare l’antipartito come pulsione storicamente antidemocratica.
«Sbagliato sì, anche perché è esistito un antipartito di tutt’altro segno, di radice azionista o liberaldemocratica. Ed era antipartito anche il Sessantotto. Quel che però viene fuori è che la retorica antipartititica è vecchia quanto è vecchio il Novecento, seppure più robustamente fondata negli anni Novanta del secolo scorso. E il fatto che oggi Grillo ripeta slogan del ’93 rivela il carattere fumoso e inconcludente di queste formule.
L’antipartito non ha mai portato da nessuna parte. E più che distruggere i partiti, dovremmo oggi preoccuparci di rifondarli daccapo».
Il testo integrale dell’intervista su Repubblica del 26 aprile 2013
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