Mercato del lavoro e licenziamenti: siamo concreti (di Salvatore Sinagra)
In Italia si discute dall’inizio del nuovo millennio sui licenziamenti e il dibattito appare spesso poco documentato e soprattutto poco attento agli input che arrivano dall’estero: viene detto genericamente che è necessario adeguarsi all’Europa; si citano, spesso a sproposito, riforme di altri paesi e quasi mai documenti. L’articolo 18 ed in generale i licenziamenti in Italia sono caratterizzati da un elevato livello di conflittualità politica. Colpisce per esempio il fatto che un importante manager come Marchionne affermi che l’articolo 18 impedisce alle imprese in crisi di liberarsi dei lavoratori in eccesso, perché le crisi aziendali si gestiscono con le norme per il licenziamenti collettivi e non con l’articolo 18 che fa riferimento ai licenziamenti individuali. Colpisce che il fondatore di Esselunga Caprotti faccia polemica sulla riforma dei contratti a termine voluta da Elsa Fornero dopo che la normativa in questione è stata modificata per ben due volte.
Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta la flessibilità del mercato del lavoro in uscita diventa negli Stati Uniti una priorità dei repubblicani; nel 1994 l’OCSE pubblica un rapporto, il Jobs study, che suggerisce di passare dalla protezione del posto di lavoro alla protezione del lavoratore, in sostanza l’OCSE invita gli Stati ove licenziare è particolarmente difficile a rendere più facili i licenziamenti individuali e a garantire la copertura universale tramite sussidi di disoccupazione. Dal 1994 sono passati 20 anni e hanno avuto luogo una serie di “esperimenti economici e sociali” che in Italia sono stati citati molto e analizzati poco.
Negli anni novanta il governo socialdemocratico danese vara la tanto discussa flexsecurity, viene data possibilità di licenziare e vengono introdotti generosissimi ammortizzatori sociali e corsi di formazione. Qualche anno dopo i programmi in questione vengono fortemente ridimensionati, perché l’esperienza ha dimostrato che molti cittadini hanno rinunciato a cercare lavoro e sono rimasti per anni nel “parcheggio della formazione”. Infatti, qualcuno dice che da anni non esiste più alcun modello denense.
La infelice vicenda degli “esodati” che deve essere inquadrata in un molto più ampio processo di espulsione dal mercato del lavoro, doveva comportare un ampio ragionamento sugli interventi che possono essere rivolti ai lavoratori considerati anziani (e che spesso non lo sono). Infine è opportuno ricordare che la “ultra-citata” Agenda 2010 di Gerhard Schröder ha intaccato solo marginalmente le regole sulla possibilità di licenziare i lavoratori a tempo indeterminato. In Germania la flessibilità in uscita è stata garantita dal ricorso ai lavoratori a tempo determinato, dalle esternalizzazioni e dalle agenzie interinali.
Di tutte queste circostanze hanno preso atto l’Unione Europea e le organizzazioni internazionali. La Commissione Europea di recente ha enfatizzato la necessità per l’Italia di politiche attive più efficienti e finanziate con più risorse, ovvero ha invitato l’Italia a spendere di più per la formazione ed il ricollocamento dei disoccupati, infine l’OCSE ha diffuso uno studio che afferma che la Germania è tra i paesi in cui è più difficile licenziare.
Quindi le tesi di Sacconi e Nuovo Centro Destra si potevano considerare sulla frontiera dell’innovazione e dell’efficienza nel 1994, oggi sembrano proprio fuori tempo massimo.
Molti economisti sottolineano che non esistono studi che dimostrano una relazione diretta tra produttività del lavoro e facilità di licenziare; in Europa si possono trovare economie solide ove è abbastanza difficile licenziare, è il caso della Germania; economie solide ove è abbastanza facile licenziare, è il caso dell’Olanda; economie in crisi ove è abbastanza facile licenziare, è il caso della Spagna (tra parentesi: la deregulation di Madrid, avvenuta a diverse riprese fin dall’inizio degli anni novanta, non ha comportato nel lungo periodo né crescita, né sostenibilità del debito pubblico).
Inoltre, se l’obiettivo del governo è quello di rendere “business friendly” il mercato del lavoro italiano e facilitare nuove assunzioni, visto che nella gran parte dei casi dopo il licenziamento immotivato il lavoratore sceglie l’indennizzo e non il reintegro, non si capisce bene perché costituisca una priorità l’abolizione o il mantenimento del reintegro e non la drastica riduzione dei tempi del processo del lavoro. Si noti tra l’altro che nel caso in cui il licenziato scelga il risarcimento, lo stesso verrà computato anche tenendo conto dei mesi persi in attesa della sentenza. La politica ha grosse responsabilità perché non ha effettuato un intervento in merito, che avrebbe prodotto limitata conflittualità e grandi benefici.
Renzi ha scatenato notevoli reazioni affermando che esiste un apartheid ai danni dei giovani e di coloro che non hanno un contratto di lavoro “tradizionale”. Oggi, rispetto a molti altri paesi d’Europa, chi non ha mai avuto un lavoro, i meno protetti, i lavoratori sfiduciati appaiono sicuramente svantaggiati. Qualcuno ha anche parlato di due milioni di cittadini colpevolmente dimenticati dalla politica, tuttavia ci sono solo due interventi che possono attenuare questa situazione di svantaggio: l’introduzione di un sussidio unico di disoccupazione, che a determinate condizioni venga percepito anche da chi non ha mai lavorato ed un “disboscamento” delle troppe fattispecie contrattuali per mezzo di un contratto unico di inserimento o di un contratto a tutele crescenti, interventi che non postulano necessariamente l’abolizione dell’articolo 18.
Oggi la difficoltà più grande di rivolgersi agli esclusi consiste nell’orientare a loro favore una parte della spesa pubblica, se non vi sono le risorse economiche e politiche per farlo è meglio non dilettarsi più in estenuanti discussioni sulla normativa dei licenziamenti e non polarizzare il paese facendo riferimento a dolorose esperienze come quelle dell’apartheid.
Salvatore Sinagra
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