Neve. Ci risiamo? O proviamo a fare qualche passo avanti? (di Alessio Terzi)
Il tono del dibattito pubblico e la qualità dell’informazione giornalistica sull’emergenza della neve e del gelo sono stati finora del tutto sconfortanti. E’ stato dato molto spazio alle polemiche strumentali, le “belle penne” non hanno perso l’occasione per confermare i rituali commenti sulla mancanza di senso civico degli italiani e/o sulla impreparazione delle amministrazioni, e così via, seguendo un copione ampiamente sperimentato, ma sempre più stantio. Tentare di esercitare una qualche razionalità, in una simile situazione, sembra tempo perso ed espone al rischio di fare la figura, nel migliore dei casi, dei grilli parlanti, nel peggiore, degli ingenui allocchi.
Eppure gli eventi in corso sono uno straordinario banco di prova per tutto il sistema della protezione civile. E’ estremamente raro che lo stesso tipo di emergenza si presenti in modo simile in tutta la penisola mettendo in evidenza le diverse capacità di risposta e le criticità. C’è da augurarsi che qualcuno al Dipartimento della Protezione civile si stia preoccupando di non disperdere questa straordinaria quantità di dati e che essi siano poi utilizzati per fare un serio bilancio dello stato dell’organizzazione e delle capacità di governo disponibili. Potrebbe essere interessante, per esempio, capire se i cedimenti della rete elettrica in varie località siano fatti accidentali o i segnali di una debolezza strutturale, confrontare le modalità di intervento adottate dai diverse comuni, mettere a fuoco le misure che si possono prendere nelle realtà in cui la rarità delle nevicate non giustifica investimenti in mezzi e in organizzazione permanente.
Per quanto ci riguarda, l’occasione è propizia per fare il punto su una questione cruciale e cioè sulle funzioni dei comuni e della cittadinanza attiva. Nel 1987 il Movimento federativo democratico (come si chiamava allora Cittadinanzattiva) aveva prodotto e distribuito, con il patrocinio della Protezione civile, un “Vademecum per i sindaci per la gestione delle emergenze”. Era il risultato del confronto fra i giovani tecnici, guidati da Zamberletti, che stavano costruendo il sistema, la competenza civica maturata dalla nostra organizzazione nell’emergenza dell’Irpinia e di altri eventi minori e l’esperienza dei comuni del Friuli nella gestione del terremoto del 1977. L’opuscoletto dava una traccia per la individuazione dei rischi presenti, indicava alcune possibili modalità di intervento (in primis la raccolta delle informazioni e la gestione delle comunicazioni) e conteneva anche gli schemi giuridicamente verificati, per le eventuali ordinanze di sgombero, requisizione di mezzi e di aree ed altro che i sindaci avrebbero eventualmente dovuto adottare. Il Vademecum, in sostanza, prefigurava i piani comunali per la protezione civile che la legge 225 del 1992 avrebbe reso “obbligatori”.
Ci si basava su un dato elementare e ineludibile, e cioè che non si può fare un’efficace protezione del territorio senza due cardini essenziali: l’intervento del comune e il coinvolgimento responsabile dei cittadini.
La nevicata ha dimostrato che, senza una consapevole mobilitazione locale, le emergenze non possono essere governate. Del resto: chi può definire le priorità di intervento? chi dispone (o dovrebbe disporre) delle informazioni necessarie per sapere dove sono i soggetti vulnerabili da tutelare, quali sono le comunicazioni che devono assolutamente funzionare? chi è in grado, con i vigili urbani, il personale tecnico e i volontari addestrati di raccogliere le informazioni necessarie per identificare le situazioni critiche e predisporre interventi tempestivi? La risposta viene da sé. Certo bisogna prepararsi, condividere con i cittadini l’individuazione dei rischi, favorire il loro intervento (sia esso la rimozione della neve o la cura del vicino anziano).
E’ documentato che cose di questo genere sono avvenute in molte realtà, diversamente conteremmo centinaia di morti. Si è verificato, però, un numero inaccettabile di situazioni in cui hanno prevalso inerzia, incompetenza ed impreparazione che non verranno sanzionate, così come non è stato, finora, sanzionato il comportamento dei comuni che non hanno predisposto i piani comunali di protezione civile.
Perché una disposizione di legge, fondata su un principio così evidente, è rimasta ampiamente inevasa? Perché nelle comunità locali non è stata colta un’occasione così preziosa per rafforzare la propria sicurezza? I motivi possibili sono certamente molti: lo scarso valore elettorale della protezione civile, il peso della speculazione edilizia, la mancanza di preparazione specifica degli apparati comunali e così via. Pesa ancora di più, però, una cronica e grave tara della vita pubblica italiana: la difficoltà (per non dire l’incapacità) di pensare e attuare programmi di cooperazione partecipati.
L’assunto che muoveva i soggetti che negli anni ’80 hanno animato la costruzione di un sistema che, nonostante tutto, ha ancora pregi riconosciuti anche a livello internazionale, era semplice e indiscutibile e cioè che una buona protezione civile è fondata su due pilastri altrettanto importanti: una mobilitazione ampia e diffusa e una politica unitaria, capace di garantire elevati livelli di coordinamento di tutte le risorse (scientifiche, professionali, istituzionali e civiche). Forse si è pensato che la legge del 1992 potesse, da sola garantire un simile risultato e comunque, non si è messo mano ad una politica di attuazione adeguata e si è lasciato troppo spazio alle tradizionali interpretazioni burocratiche. La decennale gestione verticistica e spettacolare di Bertolaso ha occultato completamente il problema. Le comunità locali sono state, di fatto, deresponsabilizzate, esautorate e, secondo il presidente dell’ANCI, in questa occasione abbandonate a sé stesse.
Nei giorni scorsi il prefetto Gabrielli ha dichiarato che il Dipartimento non sarebbe in grado di “vidimare” gli oltre 8.000 piani comunali. Con tutta franchezza il problema ci sembra mal posto e sottovalutato. La Protezione civile non può sottrarsi alla responsabilità di guidare la costruzione del pilastro della mobilitazione che deve trovare, nei piani, l’indispensabile sostegno. Non si parte da zero. moltissime comunità locali hanno dimostrato, in questi giorni, di essere all’altezza della situazione (per esempio il comune di Carsoli ha assistito anche 1200 persone “espulse” dall’autostrada Roma – L’Aquila), esiste un volontariato ampio e diffuso che lavorerebbe volentieri anche per migliorare la prevenzione e non essere soltanto la “ruota di scorta” nelle calamità. E’, statisticamente, del tutto probabile che esista una rilevante quantità di energia sociale disposta a spendersi volentieri a patto di avere un punto di riferimento affidabile.
Per quanto riguarda il pilastro della politica unitaria e del coordinamento, il Dipartimento della protezione civile, dispone delle competenze tecniche necessarie per analizzare le informazioni messe a disposizione dalla emergenza neve/gelo e mettere a punto un progetto adeguato. Anche in questo caso, la cittadinanza attiva può mettere a disposizione un know how importante, almeno quanto quello speso per la produzione del Vademecum e un supporto di organizzazione non trascurabile (basta pensare alla rete dei Centri servizi per il volontariato).
Il Presidente del Consiglio ha dichiarato l’intenzione di procedere ad una riforma della Protezione civile e ci piacerebbe sapere che intende farla precedere da un libro verde e da un’ampia consultazione. Il curriculum personale attesta che il prefetto Gabrielli è un uomo coraggioso e ci piace pensare che possa confermare questa qualità anche nella conduzione di un’opera di grande portata che sicuramente troverà ostacoli potenti. Ci piacerebbe, anche constatare che, nella prossima occasione, non si ripeterà il solito teatrino politico/mediatico. Sarebbe anche questo un segnale confortante.
Alessio Terzi Presidente di Cittadinanzattiva
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