NIMBY – Non Nel Mio Giardino (di Alfonso Annunziata)

Due recenti fatti, la sommossa in Val Susa contro il cantiere TAV, e l’ultima recrudescenza dell’annoso problema dei rifiuti in Campania, hanno riportato in auge una questione che tutti conoscono ma che ci si ostina a non voler affrontare con sistematicità.

Un Paese che ancora non ha rinunciato del tutto a velleità da Potenza Industriale, e con un profilo, una distribuzione di popolazione, una orografia, una sismicità pari al nostro deve per forza considerare la distribuzione di impianti e strutture ad elevato impatto ambientale un po’ ovunque sul territorio, siano essi infrastrutture per i trasporti e la logistica, centrali o supporti per l’energia, servizi essenziali o primari, strutture di abbattimento e smaltimento, attività produttive.

Ed è ben pensabile che molti possano auspicare la “vicinanza relativa” di molte di queste strutture e canali per il positivo ritorno economico e logistico che esse riverberano sulle regioni di pertinenza. Ma mai la contiguità stretta, side by side, con il proprio luogo di residenza per le forme di inquinamento e il rischio fisico e la svalutazione immobiliare conseguente, che tali presenze comportano.

Lo stesso disastroso e frammentario quadro legislativo in cui operano i vari enti all’atto della decisione di inserire un determinato impianto ad alto impatto, favorisce ogni genere di ingiustizie e assurdità: enti diversi possono decidere espropri con diversi gradi di priorità, gli indennizzi individuati in molti casi fanno riferimento soltanto al terreno realmente requisito (se il ponte di un’autostrada spezza una valle, magari l’ente “è tenuto” a ripagare solo i tratti di pascolo alla base dei suoi piloni, un obolo ai cittadini dei paesi verrà versato a titolo caritativo se proprio fanno storie…), le verifiche di pericolosità ambientale per molti enti risalgono a molti decenni fa e sono interne, non esiste coordinamento per aree, così che tre impianti ad alto impatto necessari alla medesima area e non incompatibili che potrebbero essere utilmente allineati con un solo esproprio, vengono messi in tre aree differenti moltiplicando lo sconquasso.

Può succedere, è successo, è la base delle rivolte che in tutta legalità enti possano cacciare cittadini da casa propria per un tozzo di pane, che ne lascino altri persino senza questa possibilità con un muro che li circonda e una istallazione rumorosissima, pericolosissima, mortale, o da soli isolati nel nulla a chilometri e chilometri da ogni altro essere umano. Che cittadini scoprano la fregatura solo alla morte dei propri cari, o poco prima della propria.

Eppure, non si dimentichi, che in molti casi la decisione stessa di puntare su certe tecnologie desuete e aree critiche decadrebbe già in fase preliminare in favore di tecnologie più performanti e aree lontane. Basterebbe la presenza di severe norme progettuali, enti seri a controllare i lavori e una chiara rivalutazione del costo reale in caso di decisione di piazzare un impianto a rischio in area urbana.

Beninteso, con la ferrea esclusione dei casi di impianti a rischio, della cui dislocazione in area umana non si dovrebbe discutere neppure in deroga, c’è anche da dire come, in molte situazioni, l’accettazione o il rifiuto di impianti di un certo tipo è anche largamente connesso a fattori economici.
Se ci si libera dal condizionamento dell’idea di “rifilare” gli impianti ad alto impatto con l’imbroglio e con la forza, contando sulla maggiore o minore quiescenza di determinate popolazioni, molto può essere fatto creando un chiaro e leggibile “listino” di sgravi e aggravi fiscali per chi ospita le strutture onerose, e per chi, invece, ne trae un beneficio.

Mi spiego meglio: se nell’ambito di un piano di sviluppo metropolitano un quartiere deve ospitare il cavalcavia di una metropolitana (onere) alle popolazioni andrà riconosciuta una certa piccola frazione di sgravio contributivo. Altri quartieri attraversati da quella metropolitana ne beneficeranno e a loro spettera’ l’aggravio compensativo. Così per la discarica o il termovalorizzatore della città da scontare fortemente sui contributi degli abitanti di quell’area, e ricaricare su tutti i contribuenti del bacino di utenza… e così via. Alla fine zone decisamente ricche di servizi, ma senza i fastidi che le strutture possono creare dovranno pagare di piu’ di zone su cui i fastidi graveranno e che, quindi, risulteranno piu’ vantaggiose sotto il profilo contributivo o fiscale. Sempre, e’ bene ricordarlo, senza mettere in gioco la sicurezza o la salute delle persone.

Può sembrare banale o troppo semplicistico, ma questo schema di solidarietà civica, potrebbe essere la base o il punto di partenza per una redistribuzione degli oneri e delle opportunita’ e potrebbe anche portare in poco tempo ad una rinascita di zone degradate e a una diversa motivazione per l’allontanamento dalle “solite” zone centrali. Con positive ricadute persino in posti di lavoro.
Non si tratta solo di soldi, ma della consapevolezza di far parte di una comunita’ nella quale non c’e’ chi deve solo subire e chi deve trarre solo vantaggi. E c’è anche da scommettere che le zone ex degradate diventino anche più attente alla qualità della loro “fonte di sgravio” ovvero all’impatto delle strutture che ospitano e alla loro efficienza.

Alfonso Annunziata

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