Non basta la laurea per lavorare: anche l’università ne ha colpa (di Flora Frate)

Oggi, indagare sulla struttura precaria e flessibile del mercato del lavoro, sicuramente è doveroso e determinante, ma  non basta per spiegare la lontananza tra la preparazione  universitaria e le figure professionali richieste dal mercato del lavoro. Il fatto è che la struttura universitaria  funziona  ancora come la vecchia accademia e presenta parametri  di valutazione e di formazione  legati ancora al vecchio metodo di fare scuola. E questo è un problema bello grande. Ragioniamoci un po’ su.

Il nuovo  quadro politico ed economico che si prospetta non è sicuramente come lo abbiamo inteso fino ad oggi e già da tempo la società ha subito notevoli trasformazioni, le stesse che hanno portato a parlare di  post-modernità, di società del rischio e dell’incertezza.

Invece, i professori, i docenti e i figli dei docenti, i ricercatori sono impiantati in un sistema universitario dove il sapere tende ad essere legato ad un tessuto sociale tipico  degli anni ’60 –‘70 cioè tipico della società fordista (produzione in serie, grandi fabbriche, catene di montaggio), statalista con un cultura rigida, basata sul formalismo giuridico e sulla divisione meccanicistica del lavoro, sullo studio del passato, sulla teoria a discapito della metodologia applicata.

È così che molte lauree non trovano corrispondenza con il mercato del lavoro perché derivano da un sistema universitario che guarda ad una società che non c’è più. Oggi le carte si sono mischiate e le figure professionali non corrispondono esattamente ai titoli di studio o, meglio, non sono definite da questi titoli. Che, d’altra parte (ed è esperienza comune) non bastano nemmeno più a far acquisire un profilo professionale utilizzabile nei mestieri e nelle professioni che sono richieste.

Nella post-modernità sono cambiate le figure professionali e le forme del lavoro e l’impianto degli insegnamenti universitari non ha saputo stare al passo con i tempi e si è inceppato. Sicuramente questo vale soprattutto per le facoltà umanistiche e, in particolare, per quelle della comunicazione, ma in generale possiamo affermare che tutti gli studenti sentono molto la mancanza di una corrispondenza tra università e lavoro. Nelle scienze della comunicazione, per esempio, la tendenza a studiare il passato porta a preferire Marx piuttosto che Bauman, a scegliere di trattare forme di comunicazione classiche invece che soffermarsi sulle nuove tecniche di marketing digitali e così i giovani laureati escono dall’università sprovveduti e privi di una formazione utile all’acquisizione di competenze professionali aggiornate.

Una società che tende sempre di più a professionalizzarsi, a mirare verso tecniche di pianificazione e sviluppo sostenibile – la cosiddetta  new economy- a investire sulle tecnologie di comunicazione, sui servizi alla produzione, sugli investimenti diretti esteri, non trova nell’università risposte adeguate. A questo punto bisogna proprio che tentiamo di comprendere cosa induce a portare avanti un sistema  che palesemente non funziona al di fuori delle mura accademiche.  Le riforme che si sono succedute in questi anni – dalla Moratti alla Gelmini – poco hanno inciso sui contenuti e molto si sono concentrate sulla forma organizzativa.

La riforma Moratti “tre più due” e poi il nuovo statuto della riforma Gelmini – Profumo sono testimonianza di interventi del governo che non sono risolutivi dei problemi che poi i giovani si trovano davanti. Infatti, se prendiamo, ad esempio, l’ultima riforma universitaria, si prevede un accentramento piuttosto che un decentramento delle funzioni dei vari organi universitari, e il Rettore rappresenta il vertice di questa amministrazione. Funzionerà? Era di questo che c’era bisogno? Non lo sappiamo. L’impressione, però, è che piuttosto che partire dalle esigenze degli studenti si continuano a fare delle riforme che investono più che altro l’aspetto ideologico – politico ossia la riproposizione di una università “manifesto” che serva innanzitutto ai professori che ci lavorano.

Con chi prendercela? Con i professori o con i nostri rappresentanti politici?  Con entrambi, ammesso però che, tra di loro,  ci sia una conversazione diretta e  attiva basata su uno spirito di conservazione del potere, cosa, questa, molto probabile d’altra parte. In conclusione, se si parla di lavoro e di professioni bisogna guardare anche al sistema formativo che prepara i giovani e al cui vertice c’è il sistema universitario.

Flora Frate

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