Palestinesi: la moltiplicazione dei profughi
I profughi del mondo sono tutti uguali, ma i profughi palestinesi lo sono a modo loro.
Non è solo la differenza delle condizioni storiche o geografiche che rende i palestinesi dei profughi particolari, ma anche il loro status internazionale.
Questo post segue quello di qualche giorno fa, nel quale mi chiedevo come mai sia ancora aperta la questione dei profughi palestinesi, a differenza di altre, contemporanee, che pure coinvolgevano molte più persone: non è LA spiegazione, ma un elemento del quadro che, forse, contribuisce, in parte, alla spiegazione. Fine del preambolo.
Come noto, in sede ONU fu costituito un Alto Commissariato per i profughi (UNHCR) che ha competenza su tutti i profughi del mondo, tranne i palestinesi che, invece, fanno riferimento ad altra agenzia ONU, l‘UNRWA. Come mai? Per banali ragioni storiche, fondamentalmente: l’UNHCR nacque dopo l’UNRWA e si decise quindi di tenere separati il mondo dei profughi palestinesi, già coperto da apposito Ente, da quello di tutti gli altri.
Al di là delle questioni nominalistiche, ci sono differenze tra un rifugiato UNHCR e uno UNRWA (cioè palestinese)? Sì. La differenza non è tanto nella definizione iniziale di profugo, ma in quella cosiddetta derivata, e nel modo in cui si perde lo status di profugo.
UNRWA infatti definisce profugo (più o meno come UNHCR) chi scappa da una situazione di pericolo o persecuzione (definizioni più precise in primo commento che fa un po’ da bibliografia), ma poi UNRWA stabilisce che è profugo anche il discendente, in linea maschile, di chi ha lo status di profugo. E qui parte la distinzione. Prendiamo un esule della Nakba del 1948: era profugo, perché era scappato o scacciato. I suoi figli acquisiscono lo status di profugo perché figli di uno che ne ha lo status . Acquisito lo status, anche i loro figli lo acquisiscono e quindi i figli dei figli dell’esule originario sono anche essi profughi, senza limiti generazionali. Questo ha fatto sì che i profughi iniziali della Nakba del 1948 fossero 700mila, ormai praticamente tutti defunti, ma i profughi palestinesi, oggi, siano quasi 6 milioni.
Anche UNHCR ha un sistema di passaggio da padre a figli, ma per UNHCR lo status di profugo si perde quando si acquisisce una nuova nazionalità. Il ragionamento è che se tu eri profugo, ma ora sei cittadino di X e non sei perseguitato, alla tua sicurezza deve pensare lo Stato X che ha dei doveri verso di te cittadino. Per UNRWA, invece, lo status continua, e ci sono forse 2 milioni di palestinesi, ormai cittadini giordani, che sono considerati profughi. Gli stessi profughi riparati a Gaza, sarebbero considerati tali? Per UNHCR forse no, perché un discendente della Nakba che vive a Gaza non ha differenza di trattamento rispetto al suo vicino gazawita nipote di gazawiti che stavano lì dal tempo degli ottomani. Qualcuno ha fatto il calcolo (vedi commento) arrivando alla conclusione che i profughi palestinesi, se venisse adottato per loro il criterio UNHCR, con Gaza e Cisgiordania Stato palestinese a tutti gli effetti, diventerebbero forse meno di mezzo milione, e non 6 milioni.
Tornando quindi alla domanda dell’altro giorno: perché un tedesco che, dopo la guerra, fu sbattuto fuori dai Sudeti, non è profugo? Anche per il fatto che, entrando in Germania, e acquisendone la cittadinanza, ha smesso di esserlo mentre un palestinese, cittadino giordano, lo è rimasto, passando lo status ai nipoti. Tutto ciò vale per tutti i palestinesi? No, vale per i palestinesi che sono nell’area di operazioni dell’UNRWA, vale a dire i due territori (Gaza e Cisgiordania) più Libano, Siria e Giordania. Se insomma un palestinese è diventato cittadino neozelandese, ricade nella definizione UNHCR e non è più profugo, se è cittadino siriano o giordano, resta tale.
Altra differenza. UNHCR ha, tra i suoi obiettivi, quello di cercare una soluzione permanente per i suoi assistiti, UNRWA no, questo compito è demandato all’ONU in generale e, quindi, agli equilibri politici regionali se non mondiali. Che si intende per soluzione permanente? Varie possibilità. La prima, la via maestra, è il rientro in sicurezza del profugo. Se questo non è possibile, nuova cittadinanza, o nella terra d’asilo dove si è rifugiato, o in altre Nazioni disposte ad accoglierlo. Questi ultimi casi, le altre Nazioni, sono assai rari, quindi per un palestinese in Giordania l’unica soluzione è il rientro, visto che lo status di cittadino giordano non è considerato soluzione permanente in quanto, come detto sopra, si resta profughi. Questa è una delle tante ragioni per cui il problema del rientro si pone in maniera così pressante per i palestinesi e non, per dire, per gli istriani che, quando divennero cittadini italiani, persero lo status di profugo avendo trovato una soluzione permanente. Il problema è che nel caso dei palestinesi il diritto al rientro non riguarda più coloro che erano esuli, vale a dire i 700mila, ormai quasi tutti defunti, ma i 6 milioni loro nipoti che rientrerebbero in un luogo dal quale, personalmente, non sono mai usciti.
Questa differenza tra UNRWA e UNHCR è solo figlia del caso? Forse no, ci furono probabilmente anche ragioni politiche. UNRWA nacque all’indomani della prima guerra araboisraeliana, persa dagli arabi i quali, però, meditavano rivincita che poi tentarono di ottenere, senza successo, nel 1967 e nel 1973. L’obiettivo per gli arabi, nel 1950, anno di fondazione UNRWA, era quindi sempre quello di cancellare Israele. Se si fosse considerata soluzione permanente la cittadinanza in un Paese vicino, e quindi la perdita dello status di profugo, si sarebbe sancita una sorta di status quo, implicante l’esistenza di Israele. Ma l’idea era proprio quella di evitare lo status quo, e, quindi, con il considerare gli esuli della Nakba, e i loro nipoti, sempre profughi, e chiedendo per loro il diritto al rientro, si forniva ulteriore carburante all’idea di un conflitto. UNRWA quindi non ricerca soluzioni permanenti, per esempio avviandoli a nuova cittadinanza nei Paesi d’asilo come fa UNHCR, limitandosi a fornire assistenza ai profughi. A tutti i 6 milioni? No, a un numero più ridotto di effettivamente aventi bisogno, ma ciò non toglie che registri 6 milioni di profughi per i quali la soluzione permanente prospettata è il rientro in Israele.
UNRWA ha un bilancio superiore al miliardo, frutto di donazioni, in particolare da USA e paesi europei, singolarmente o come Unione. La maggiore quota del bilancio è costituita da spese per personale, attivo in servizi assistenziali, con l’educazione al primo posto. Oggi UNRWA ha circa 30mila dipendenti mentre UNHCR, che assiste circa 30 milioni di profughi sparsi per il mondo, ne ha molti di meno, 20mila circa. I 30mila dipendenti UNRWA sono per la massima parte palestinesi, e quindi l’Agenzia è di fatto il maggior datore di lavoro della popolazione palestinese e finisce per essere il principale, se non talvolta l’unico, erogatore di servizi essenziali quali, appunto, istruzione o assistenza sanitaria.
Il carattere anomalo del profugo palestinese, rispetto agli altri nel mondo, viene ogni tanto scoperto dalla destra (per esempio da Trump) che provvede a bloccare le donazioni all’UNRWA mettendo quindi a serio rischio i servizi essenziali di cui sopra (le donazioni USA sono poi state ripristinate, e aumentate, da Biden). Il che è come dare la peggiore risposta possibile ad un problema che, però, oggettivamente esiste. Vale a dire: ha senso, nel 2023, prospettare a 6 milioni di persone, come soluzione permanente, il rientro in un Paese nel quale non hanno mai messo piede? Un Paese, peraltro, grande come la Sicilia e che ha una popolazione (10 milioni) doppia di quella siciliana? Questione aperta.
Del grande mosaico che costituisce il problema dei profughi palestinesi, quanto sopra rappresenta solo una tessera. La questione dei profughi palestinesi, al di là di tutte le altre e innumerevoli ragioni storiche, si è perpetuata, a differenza di molte altre situazioni contemporanee, anche perché, all’indomani della Nakba, non furono integrati nei Paesi d’asilo confinanti (come Siria o Giordania) ma rimasero in una situazione di sospensione indefinita e infinita. Né pieni cittadini nella nuova casa, né più cittadini nella vecchia, sono diventati in pratica, come ha scritto qualcuno, cittadini ONU, e UNRWA in particolare. Sono rimasti profughi, passando lo status in eredità a figli e nipoti che sono cresciuti avendo come principale, se non unica, prospettiva di soluzione il ritorno in un Paese nel quale non hanno mai messo piede.
Jack Daniel (tratto da facebook)
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