Pensioni e lavoro. La questione giovanile oggi
Da quando Tito Boeri è diventato presidente dell’INPS ha subito aspre critiche, per ultima quella di creare panico tra i giovani. E’ innegabile che chi ha iniziato a lavorare a partire dagli anni novanta rischia la povertà quando non sarà più in grado di lavorare per ragioni anagrafiche.
A partire dalla riforma Amato si sono succeduti tanti interventi, per ultimo quello che porta il nome di Elsa Fornero, orientati alla doppia finalità di alzare l’età pensionabile e convertire le pensioni dal sistema retributivo al contributivo. Questi interventi sono sempre stati orientati alla tutela del diritto acquisito. Ai giovani non è mai stata spiegata la situazione. In pratica mentre qualche mio coetaneo protestava per fare andare i suoi genitori in pensione a 60 anni, ma nessuno gli spiegava che la sua età pensionabile era già di 70 ed era destinata a crescere.
In Italia, chi ha iniziato a lavorare prima del 1978, percepisce una pensione integralmente computata con il sistema retributivo, che, mediamente, ha garantito un rapporto tra ultima retribuzione e prima pensione dell’80%. Con il passaggio al sistema contributivo il rapporto è destinato a scendere al 50% per chi ha iniziato a lavorare negli anni ’90, a condizione che l’Italia riesca a crescere nei prossimi anni a tassi non troppo lontani dall’1%.
Intendiamoci, in una certa misura è ragionevole tutelare i diritti acquisiti. Ricalcolare tutti gli assegni con il metodo contributivo, anche quelli inferiori ai 2.000 euro netti mensili, sarebbe ingiusto e economicamente inefficiente poiché comporterebbe un crollo della domanda.
Certo però quando ci sono disparità forti come quelle di cui stiamo parlando qualche intervento importante dal punto di vista simbolico e utile a ottenere un paio di miliardi per il contrasto alla povertà è doveroso. Si potrebbe chiedere per esempio un contributo piccolo per i pensionati con un assegno di oltre 3.000 euro netti al mese, che cresca in misura significativa per gli assegni superiori ai 5.000 euro netti ed un contributo a chi ha ottenuto una baby pensione e poi ha iniziato un’altra attività o appartiene ad una famiglia con redditi elevati. Si potrebbe anche pensare ad una revisione degli assegni multipli dato che ben 300.000 italiani hanno addirittura quattro pensioni.
Ma prima di ogni cosa occorre una gigantesca operazione trasparenza. Per anni il predecessore di Boeri, Mastrapasqua ha affermato che non poteva spiegare ai giovani con quale trattamento presumibilmente avrebbero passato la vecchiaia per ragioni di ordine pubblico. In sostanza la classe dirigente del paese ha preferito nascondersi, quando avrebbe dovuto raccontarci i suoi ed i nostri errori. La trasparenza serve per far fare giuste scelte in termini di previdenza complementare a chi può permettersi di risparmiare per la pensione e per avviare un dibattito politico sugli strumenti e le risorse che lo Stato dovrà mettere in campo per garantire una pensione ai precari ed ai meno abbienti che schiacciati dalla logica dell’emergenza non possono affrontare i problemi che avranno tra quarant’anni. Servirà grande capitale politico per fare redistribuzione in contesti in cui molti pensionati non arriveranno a 1.000 euro al mese.
Di fatto il precariato è diventato una grande scuola di sacrificio per i giovani. Oggi il mercato del lavoro è caratterizzato da una concorrenza spietata, ed vero che è necessario laurearsi in tempi non troppo più lunghi di quelli legali, ma certe polemiche degli ultimi tempi mi sembrano orientate a far passare il messaggio che i giovani hanno meno opportunità perché sono più viziati, meno combattivi e meno dotati dei loro genitori. In sostanza i giovani sarebbero poveri per proprie responsabilità. E pensare che la polemica proviene quasi sempre da parte di persone che appartengono a generazioni che hanno goduto di condizioni pensionistiche e anche retributive difficilmente ripetibili per i giovani di oggi.
La questione giovanile deve essere analizzata in termini culturali prima ancora che di investimenti e riforme. Oggi i giovani migliori non vanno via dal paese perché sono più poveri dei loro nonni e dei loro genitori che sono rimasti in Italia, ma perché non sono rappresentati dall’Italia che conta nell’arena politica ed economica. Probabilmente si è dimenticata la lezione del passato quando le industrie della chimica, metalmeccaniche e dell’energia attiravano i cervelli invece di farli fuggire.
I giovani non si trattengono in Italia sminuendo il loro operato, facendo loro la ramanzina, negando i problemi o ancor peggio alzando muri. Si convincono a rimanere con proposte credibili.
Salvatore Sinagra
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