Per Victoria Amelina uccisa a Kramatorsk

«Siamo ossessionati dalla nostra libertà»: storia di Victoria Amelina, la giovane scrittrice ucraina uccisa da una bomba russa. A Nju Jork – nel Donbass – aveva avuto il coraggio di organizzare un festival letterario. In cerca di una impossibile normalità

Scrive il poeta Juan Gelmàn: “È il volto che riappare, non il numero.” Così oggi mi fermo a contemplare il viso giovane e i capelli biondi e il sorriso della ragazza Victoria Amelina: trentasette anni portati con leggerezza e gravità dentro questa sudicia tragedia che è il massacro russo dei figli di un intero popolo. Victoria Amelina scrittrice, Victoria Amelina vincitrice – e ne era così orgogliosa – del premio letterario dedicato a Joseph Conrad, Victoria Amelina uccisa a tradimento insieme ad altri dodici – numeri e volti – da un missile russo precipitato su un quartiere borghese della pacifica città di Kramatorsk, così lontano dal fronte di guerra.

Sempre mi stupiscono queste morti, nella loro insensata semplicità. Sono forse ingenuo, immagino: ieri – che era una bella sera tiepida e ventosa – mi sono seduto fuori di un bar con un gelato e in compagnia di amici, aspettavo l’ora di cena, osservavo le auto passare sulla strada. Il futuro – un piccolo, sonante futuro – era il ritorno a casa, altre chiacchiere con mia moglie e poi la cena, la notte silenziosa, i cani che abbaiano, qualche sbadiglio sul divano davanti alla televisione. Innocenti no, non siamo innocenti, ma viviamo: a tutti più o meno è concesso questo piccolo privilegio in tempi di pace.

Penso a Victoria che quando è stata uccisa stava cenando – o forse si concedeva un aperitivo – in compagnia di scrittori e giornalisti colombiani. La Colombia, così lontana da Kramatorsk e da questa putrida tragedia orientale: e forse lo sconosciuto soldato russo che ha premuto il pulsante del missile non sa nemmeno che esiste, la Colombia. Penso a Victoria che voleva viaggiare e conoscere e che scriveva orgogliosa: nel mio zaino porto i ritratti dei grandi scrittori del mondo.

Penso a Victoria che nel Donbass – a Nju Jork – aveva avuto il coraggio di organizzare un festival letterario. Avete letto bene: Nju Jork, come New York. Sembra che il nome derivi da Jork, il comune della Bassa Sassonia da dove provenivano i primi coloni mennoniti di lingua tedesca, arrivati qui alla fine dell’Ottocento. Poi, la solita storia: dopo la rivoluzione i coloni furono espulsi come “rappresentanti della classe borghese”, poi deportati da Stalin e infine cancellati anche nel ricordo, quando nel 1951 la cittadina fu ribattezzata Novhorods’ke per rimediare allo scandalo di un nome troppo americano. Ma gli ucraini sono testardi, e la vecchia targa campeggia oggi all’ingresso della cittadina: New York del Donbass.

Insomma, festival letterari, libri per bambini, appassionate cronache di guerra: questa era l’infaticabile ragazza Victoria. E comunque: di Victoria si parla in queste divagazioni, ma si potrebbe anche parlare e raccontare la breve vita delle due sorelle quattordicenni che sono morte anche loro nello stesso schianto. E si potrebbe parlare degli altri dieci, di cui non abbiamo nemmeno il nome. Di questa guerra io ho – tutti noi abbiamo – una lista di nomi, lunghissima. Una lista che ogni giorno si allunga e che solo a leggerla impiegheremmo un intero pomeriggio.

Volti e nomi: aveva ragione Juan Gelmàn quando scriveva che “il volto riappare”, e aveva ben ragione il poeta argentino che testardamente e inesorabilmente spese gli ultimi anni della sua vita a ricercare il volto e il corpo del figlio Marcelo e della sua ragazza Maria Claudia, rapiti a venti anni dai sicari dei colonnelli argentini: lei incinta di una bambina partorita in carcere e scomparsa nel nulla. La ricerca implacabile del poeta – nato a Buenos Aires da una coppia di ebrei ucraini – si conclude ben oltre la fine della dittatura con il ritrovamento del corpo del figlio e il riconoscimento di Macarena, nipote amatissima che accompagnerà nell’affetto gli ultimi anni del nonno.

Divago, ma forse non del tutto. Non saprei dire se quella del poeta Gelmàn sia una storia a lieto fine, come non saprei dire se la morte di Victoria sia solo una insensata tragedia. La giovane scrittrice aveva scelto da tempo. Scriveva: “siamo, si può dire così, ossessionati dalla nostra libertà.” E questa testarda rivendicazione non è poi tanto lontana dal convincimento del vecchio poeta: “non è per chiuderci in casa che si costruisce una casa, non è per chiuderci nell’amore che si costruisce un amore.”

Flavio Fusi tratto da www.succedeoggi.it

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *