PNRR: medicina del territorio in un vicolo cieco

Da settimane si discute sui tempi e sui modi dell’attuazione del PNRR. Viste le difficoltà che hanno indotto a chiedere una proroga di 30 giorni della rendicontazione di marzo, finalizzata al versamento della relativa rata, c’è chi propone di rinunciare ad una parte dei fondi per concentrare gli sforzi sui progetti effettivamente realizzabili nei tempi convenuti. I problemi nell’utilizzo dei fondi comunitari non sono una novità e sono stati paradossalmente aggravati dall’imponente entità delle somme in arrivo.

Come hanno osservato gli economisti milanesi Boeri e Perotti “si è voluto portare a casa più soldi possibili per porsi il problema di come spenderli”. Per usare la nota metafora si è posto il carro davanti ai buoi e dopo averlo stipato al massimo si è realizzato che forse i bovini non erano in grado di trascinare tutto quel peso alla meta ed ora converrebbe ridurre un pò il carico. Sarebbe stata più conveniente l’operazione inversa, ovvero definire “le nostre esigenze e le nostre priorità, le nostre capacità di realizzare e decidere di conseguenza quanto prendere a prestito”.

Con lo stesso criterio sono stati distribuiti tra le varie voci di spesa i miliardi della misura 6 C1 del PNRR: ad esempio per le Case della Comunità (CdC) inizialmente sono stati stanziati 4 miliardi poi  dimezzati per privilegiare l’assistenza domiciliare, a prescindere dal numero e tipologia di strutture necessarie ad una rete Hub&Spoke (tradotto: mozzo e raggi) adeguata ai territori. Con il risultato di distribuire in modo ragionieristico un solo modello di mega CdC da 45mila abitanti, che finirà per riproporre il modello del poliambulatorio INAM, o poco più, senza una reale connessione con la dimensione comunitaria e con i professionisti sanitari, che non potranno essere ospitati in locali adeguati e resteranno dispersi sul territorio. Ad esempio in Lombardia, secondo la ricerca del Mario Negri, quelle attive fino ad ora sono praticamente scatole vuote in attesa di trovare personale adeguato.

Alcune regioni sono corse ai ripari finanziando di tasca proprio ulteriori CdC e facendo crescere il numero complessivo da 1350 a 1430. Tuttavia secondo uno studio indipendente ne servirebbero più del doppio per una fitta e diversificata rete territoriale, composta da 1/3 di Hub e 2/3 di Spoke. Non è superfluo ricordare che i 4 miliardi stanziati con la prima versione del PNRR potevano garantire questi standard.

Il sottofinanziamento delle CdC non è un caso isolato: nell’ultimo decennio sono stati elaborati e deliberati progetti sulla carta adeguati ma senza le relative risorse, come la riforma Balduzzi del 2012 rimasta nel limbo per un decennio prima che l’ACN (accordo collettivo nazionale) 2016-218, entrato in vigore a metà 2022, recepisse le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), forme organizzative a costo zero dell’assistenza primaria. Così una buona legge trova applicazione con grande ritardo per mancanza di un cronoprogramma di implementazione a tappe, come quello dettato dalla UE per l’erogazione dei fondi del PNRR. Peraltro anche l’altra forma organizzativa della Balduzzi, le Unità Complesse delle Cure Primarie o UCCP, è stata recepita solo formalmente senza un adeguato finanziamento e tempi certi. Proviamo ad immaginare come si potrebbe presentare oggi l’assistenza primaria se:

  • nel 2012 dopo il varo della legge Balduzzi un ACN avesse subito recepito le aggregazioni dell’assistenza primaria, implementandole in modo capillare su tutto il territorio;
  • se contestualmente tutte le regioni avessero stanziato i fondi per un piano decennale di ristrutturazione della rete sociosanitaria a tipo Hub&Spoke.

La distanza tra mega CdC e studi dei medici di medicina generale (MMG) difficilmente verrà colmata dalla Missione 6C1 del PNRR, con buona pace per la retorica dell’integrazione, mentre poteva essere ridotta dalle UCCP (Unità Complesse delle Cure Primarie), naturali candidate al ruolo di presidi Spoke rispetto agli Hub da 45mila abitanti, per assicurare capillarità e prossimità assistenziale soprattutto nelle aree disagiate della collina e della montagna penalizzate per la chiusura dei piccoli ospedali.

Dopo l’insediamento del Governo Meloni questa scelta è stata criticata dai nuovi decisori ministeriali ma a distanza di 6 mesi non si intravvedono correzioni a quella che appare la principale criticità della Missione 6C1. Aggravata dal fatto che dopo quel fatidico 24 febbraio è cambiata l’economia, la geopolitica e l’orizzonte strategico continentale, vale a dire la storia il che non è poco. Nulla di male quindi a rivedere le priorità di politica sanitaria, ad esempio l’equilibrio degli stanziamenti tra Case della Comunità e assistenza domiciliare, se non altro per 2 problemi concomitanti: il deficit di operatori sanitari sul territorio sempre più carenti e l’aumento dei costi per l’edificazione delle strutture a fronte della stabilità di quelli per l’assistenza domiciliare. Come sarà possibile garantire l’estensione dell’assistenza domiciliare ipotizzata nel PNRR quando i medici in attività sono oberati di pazienti e di procedure burocratiche che li obbligano ad ore di attività al PC?

Il decennale ritardo della riforma Balduzzi è l’esito alla deformazione in senso giuridico/formale della pubblica amministrazione italiana, che traccia la mappa di un progetto ma si scorda di trovare le risorse necessarie, di stabilire le tappe dell’attuazione e di verificarne la realizzazione. È il percorso che dovrebbe garantire entro il 2026 la missione 6C1 PNRR, a rischio per la complessità delle procedure e dei vincoli burocratico/amministrativi. Insomma di fatto il PNRR ha dato impulso all’attuazione dell’incompiuta legge Balduzzi anche se persistono non poche incertezze e criticità risalenti al progetto approvato nel 2021 ed ormai obsoleto. Esistono margini per rimediare oppure è troppo tardi?

Giuseppe Belleri tratto da https://curprim.blogspot.com

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