Il ponte Morandi metafora dell’Italia

A Genova non è solo crollato un ponte, ma è stata messa a nudo la fragilità e la pericolosità di un sistema nel quale tutti ci troviamo a vivere, ma al quale ci siamo assuefatti. Il crollo del ponte Morandi ci colpisce direttamente perché ci toglie la fiducia che lo Stato e le strutture tecniche e imprenditoriali che gestiscono infrastrutture e servizi siano in grado di proteggerci. Non siamo tutti ingegneri, ma ormai, grazie alla diffusione delle informazioni, ci si è potuti fare un’idea abbastanza precisa e realistica della vicenda. Possiamo non conoscere la causa esatta del crollo, ma ne sappiamo abbastanza per escludere la fatalità che, d’altra parte, nessuno invoca. Non si è trattato di un evento naturale nei confronti del quale comunque possiamo difenderci prevedendone le conseguenze. Contro il terremoto si possono costruire edifici che resistono a scosse molto forti. Contro le alluvioni si può fare molto come, per esempio, allontanare le case dalle rive di fiumi e torrenti (quelle di Genova per esempio) e piantare alberi sulle colline. Ma se un ponte autostradale viene costruito sopra una città, se il progetto è sbagliato, se nessuno vuole ammettere che sia pericoloso, se chi ne ha la responsabilità lascia passare il tempo senza fare alcunché di risolutivo, allora non abbiamo difesa e la nostra vita vale meno delle resistenze corporative e burocratiche, dei dissidi politici, della farraginosità delle procedure, dell’ottusità dei punti di vista di minoranze rumorose che vogliono imporre a tutti la loro visione.

Questa è la vicenda del ponte Morandi e dell’autostrada sciagurata che è stata fatta passare sopra e dentro la città di Genova. Che il ponte sia stato progettato male (“un fallimento dell’ingegneria” ha affermato il prof. Brencich esperto di costruzione in cemento e docente all’università di Genova) si è visto. Che dovesse essere profondamente ristrutturato oppure demolito lo dice la logica e lo dicono i fatti (intervento strutturale su un pilone nel 1995 e decisione di intervenire anche sugli altri). Per 51 anni chi doveva gestirlo (prima la società autostrade dell’IRI, poi quella privata) non ha voluto riconoscere la realtà. Gli altri protagonisti della vicenda, i responsabili politici delle istituzioni locali e nazionali, non hanno voluto assumere l’unica decisione sensata che qualunque persona ragionevole avrebbe considerato ineludibile e urgente: portare il tracciato autostradale fuori dalla città di Genova e contemporaneamente ristrutturare il ponte.

Oggi si accusa la società Autostrade di inadempienza, ma chi doveva vigilare sul suo operato all’interno degli apparati di governo cosa ha fatto per decenni? E perché non è stato ascoltato il responsabile della vigilanza sulle concessionarie presso il ministero per le infrastrutture che denunciava in Parlamento due anni fa le enormi difficoltà materiali che incontravano gli ispettori per svolgere il loro lavoro? Che tipo di rapporti si sono creati tra governi e società Autostrade nel corso degli anni? Perché la convenzione è stata a un certo punto approvata con legge depotenziando e aggirando il ruolo degli organismi tecnici e di controllo che nel passato avevano sollevato molti dubbi sul rapporto tra investimenti e pedaggi? Il crollo del ponte ha messo a nudo un rapporto tra società concessionaria e Stato tutto sbilanciato a favore della prima. Chi lo ha voluto e coperto per anni? Se le privatizzazioni di infrastrutture e servizi che sono monopoli naturali sono state fatte così, con tanto di accordi segreti e blindati, perché stupirsi che adesso si prospetti il ritorno ad una gestione pubblica? In questo quadro l’annuncio della revoca della concessione, inattuabile nelle forme con le quali è stata presentata dal Presidente del Consiglio e dal ministro Di Maio, è una reazione comprensibile anche se non condivisibile, comunque coerente con l’identità del M5S. Che poi all’annuncio seguano i fatti si vedrà. Se però questo annuncio sta facendo scandalo avrebbero dovuto farlo anche gli accordi segreti e i patti stipulati dai governi precedenti. Bisogna stare attenti perché la trappola della propaganda non sta da una sola parte e la storia italiana delle privatizzazioni non è tutta difendibile.

Gli ingredienti di una crisi di sistema ci sono tutti perché gli errori si possono commettere (un ponte sbagliato, un’autostrada assurda), ma è proprio nella loro correzione che si riconosce un sistema che funziona da uno che non funziona. E se non funziona il conto lo paghiamo noi. Può trattarsi di un pronto soccorso o di un ponte o di una ferrovia non messa in sicurezza.

Per non commettere errori e per correggerli il momento della decisione e della sua attuazione è cruciale. Non è un caso che mentre il ponte si logorava e il traffico assediava l’autostrada si sia svolto per decenni un vergognoso tira e molla sulla realizzazione di un nuovo tracciato autostradale che ha coinvolto tutte le istituzioni locali, i partiti, i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali, i cittadini organizzati in comitati. Un tipico esempio dell’incapacità di decidere che ci affligge. Siamo disposti a discutere all’infinito dimenticando che la discussione serve per decidere. Discutere non è un fine, ma un mezzo e chi ha responsabilità istituzionali ha il dovere di stabilire gli obiettivi e di perseguirli.

Senza una guida politica forte e autorevole l’Italia non può farcela. Questa guida oggi non c’è. Non può esserlo la Lega che nella destra ha sempre espresso la parte più rozza e retriva, quella delle soluzioni sbrigative a problemi complessi. E non può esserlo il M5S che è nato e cresciuto in nome della resistenza alla modernità vista come occasione di sfruttamento e di corruzione. Dovunque ci fosse un NO il M5S ci si è accodato che si trattasse di vaccini, di un gasdotto, di una ferrovia, di un valico. Anzi i No sono stati coltivati e stimolati per anni da Beppe Grillo che ha dato voce alla diffidenza e all’ignoranza della gente comune contro tutti quelli che avevano una competenza scientifica e tecnica. Non a caso i valori di questa nuova cultura di massa sono stati il vaffa e il “faccio come mi pare”.

Possiamo pensare che queste due forze politiche, queste due culture possano guidare la settima potenza industriale del mondo? L’Italia è afflitta da ritardi storici che ormai conosciamo a memoria e che la stanno spingendo verso il basso. Se non vogliamo fare la fine del ponte bisogna che ci rimbocchiamo le maniche per riportarla in alto

Claudio Lombardi

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