Proteggere il territorio con la partecipazione civica (di Alessio Terzi)

I fatti dell’ultimo mese hanno messo in evidenza la necessità di un profondo aggiornamento del sistema e della cultura della protezione civile per governare meglio eventi ad alto potenziale catastrofico un tempo inusuali e ormai invece ricorrenti, come le “bombe d’acqua” dei giorni scorsi.

Le dichiarazioni rilasciate domenica dal Sindaco di Genova e dal Capo della Protezione civile aiutano a mettere a fuoco un problema cruciale per il futuro della protezione civile in Italia.

“Porterò per sempre le vittime di questo disastro sulla coscienza, la responsabilità ce la prendiamo tutti e io per prima, spero che col tempo si capisca che ciò che è accaduto era da segnalare come disastro e non allerta 2” – ha detto il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, in collegamento con il programma “Domenica Cinque”.  “Col senno di poi, avrei fatto chiudere l’intera città – ha aggiunto – a seguito dell’allarme 2 ricevuto dalla protezione civile, quest’anno a noi segnalato 6 volte; abbiamo seguito un protocollo che però non prevede la chiusura di tutte le scuole e il blocco di tutta la città”.

La Magistratura appurerà se nel sistema di allarme qualcuno ha sbagliato con colpa ma è evidente che qualcosa, non ha funzionato. L’onesta  dichiarazione del Sindaco lascia intravedere, per esempio, la possibilità di una interpretazione tutto sommato burocratica (l’applicazione del protocollo) dell’allerta. E’ stato forse dimenticato che nelle emergenze alluvionali l’imprevisto è sempre in agguato. Nel caso particolare, sembra che il torrente Fereggiano abbia subito un “tappo idraulico” alla confluenza col torrente Bisagno che ha provocato il repentino e catastrofico innalzamento delle acque. In assenza di informazioni più precise qualunque ulteriore considerazione specifica sarebbe del tutto arbitraria, ma il problema generale deve essere registrato e accuratamente analizzato.

Per parte propria Gabrielli ha detto: “Ringrazio il sistema di protezione civile di questa regione (il Piemonte n.d.r.) che nella circostanza ha manifestato tutta la sua capacità e efficienza. In questi giorni ho sottolineato spesso che in questo Paese bisognerebbe recuperare una sorta di patto sociale tra le istituzioni e la gente che deve informarsi e tenere comportamenti volti ad autoproteggersi. Che non vuol dire arrangiarsi, ma la più elementare e efficace nozione di protezione civile. Se io mi metto in pericolo non c’e’ dispositivo di sicurezza che possa evitare situazioni di rischio. Nel 1800 nessuno guardava prima di attraversare la strada, oggi lo fanno tutti. Se cominciassimo ad avere lo stesso atteggiamento per quanto riguarda i rischi del territorio non conteremmo sempre morti, feriti e danni”.

Parole sacrosante che però non danno conto di  una realtà importante e introducono un problema cruciale. La realtà è che la stragrande maggioranza dei cittadini coinvolti ha mantenuto comportamenti appropriati e responsabili  durante e dopo le emergenze. Gli stupidi fanno parte dell’umanità e così nei piani di emergenza bisogna mettere in conto che due incoscienti canoisti vogliano provare l’ebbrezza della navigazione sul Po in piena e l’esistenza dei “turisti delle alluvioni” come li ha chiamati Cota. Ma questo non autorizza nessuno a trasferire alla generalità dei cittadini i giudizi meritati da un piccolo numero di persone. Con buona pace di Massimo Gramellini, gli abitanti delle zone alluvionate si sono difesi al meglio, ovviamente sulla base delle informazioni a loro disposizione, anche se non avevano gli zainetti di emergenza pronti.

Qui si apre il problema cruciale e cioè che, per costruire la cultura e le capacità di prevenzione indicate da Gabrielli, bisogna rendere i cittadini protagonisti della sicurezza dei propri territori e non limitarsi a generiche esortazioni. Lo strumento per realizzare ciò esiste e si chiama “Piano comunale di protezione civile” istituito dalla legge che, all’inizio degli anni ’90 trasformò in normativa gli esiti di uno straordinario processo di crescita civile.

Il disastro dell’Irpinia rese tragicamente evidente che la sicurezza dei cittadini non poteva appoggiarsi soltanto sulle capacità di amministrazioni impreparate e distratte. Grazie anche alla presenza di un personaggio particolare, come Zamberletti, si mobilitarono cospicue energie civiche (fra cui Cittadinanzattiva, allora Movimento federativo democratico), scientifiche e professionali che permisero la costruzione di un nuovo sistema d’avanguardia, che aveva fra i suoi cardini l’empowerment delle comunità locali.  I Piani di emergenza, fino ad allora documenti coperti da segreto militare, dovevano allargarsi alla prevenzione ed essere costruiti e deliberati democraticamente.

Purtroppo, con il venire meno della tensione iniziale, questa opportunità è stata ampiamente trascurata o interpretata in chiave esclusivamente tecnica. Anche il  Dipartimento della Protezione civile si è, in qualche modo, “tecnocratizzato”. Il trasferimento ad esso della gestione dei grandi eventi, al di là di quelli che saranno gli esiti delle indagini della magistratura è stata una forma di snaturamento del quale, da qualche anno in qua, stanno emergendo i segni.

Se davvero si vuole migliorare le condizioni del territorio per contare sempre meno morti, sempre meno feriti e sempre meno danni bisogna recuperare lo spirito iniziale e fare sì che i Piani di protezione civile diventino i piani di sicurezza delle comunità. Le risorse che contano di più, a questo proposito, non sono quelle finanziarie (che peraltro devono esserci) ma quelle umane, civiche e professionali.

Le operazioni da fare sono, come sempre, la definizione dei rischi e delle misure da prendere per prevenire o comunque limitare i pericoli comunque esistenti. Questa però non può e non deve essere soltanto una operazione tecnica; i cittadini devono essere messi in grado di segnalare le situazioni ad essi note, di portare il contributo della propria esperienza alla valutazione dei possibili impatti, di collaborare alla definizione delle misure preventive e delle procedure di allertamento e di gestione delle emergenze. E’ un processo di reciproca responsabilizzazione delle amministrazioni e dei cittadini che questi, come dice l’art. 118 della Costituzione, possono attivare autonomamente in caso di ritardi e inerzie istituzionali. I mutamenti intervenuti nell’ultimo ventennio conferiscono un significato ancora più elevato a questa operazione. Da una parte occorre mettere in conto la possibilità di nuove manifestazioni del rischio, dall’altra il succedersi di eventi catastrofici impone l’adozione di standard di sicurezza che mettano fine all’uso dissennato del territorio.

La crisi in atto enfatizza la sproporzione cronica esistente fra le risorse finanziarie disponibili e le necessità di intervento e impone alle comunità locali la mobilitazione di nuove risorse. In questo ambito la sussidiarietà ha già dato prove eccellenti testimoniate da un volontariato altamente qualificato e da esperienze vincenti di partecipazione dei cittadini ai sistemi di sorveglianza e di vigilanza ma anche alla manutenzione dei territori che resta un caposaldo dell’opera di prevenzione.

E’ un percorso di empowerment dei cittadini che consente alle comunità di riappropriarsi del governo della sicurezza dei propri territori e di rafforzare la capacità di impegnare anche le istituzioni di livello superiore nel sostegno dei piani, eliminando ogni residuo di snaturamento. La protezione civile, quindi, può tornare anche ad essere un campo privilegiato di intervento nel quale la cittadinanza attiva può esercitare un ruolo strategico e riequilibrare i rapporti di potere con la rappresentanza politica.

Alessio Terzi Presidente di Cittadinanzattiva

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