Ricolfi Mastrocola e la disfatta della scuola
Mai come in questo periodo di pandemia occorre domandarsi come sia possibile che tanta gente lavori di fantasia per inventare sue interpretazioni degli eventi o che aderisca alle scempiaggini inventate da altri senza ricorrere al buon senso, allo spirito critico e ad un minimo di razionalità. Una grande responsabilità ce l’ha sicuramente internet che ha permesso a chiunque di diffondere la sua interpretazione della realtà. Ne è responsabile anche la delegittimazione dell’autorità che, in parte, deriva dallo sconvolgimento iniziato nel ’68 e in parte è un autogol delle vecchie classi dirigenti che si sono mostrate inadeguate e colpevoli di troppe malversazioni. Sull’onda della contestazione è nato il complottismo che ha svuotato di credibilità qualunque manifestazione di autorità. Corollario di questa deriva verso un nuovo tribalismo nel quale ogni gruppo si rinchiude nella sua “verità” è stata la delegittimazione dell’insegnamento e della scuola.
Con “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (La Nave di Teseo, 2021) Paola Mastrocola e Luca Ricolfi sfidano il senso comune che vuole una scuola sempre meno impegnativa per gli studenti e pronta ad andare incontro alle loro esigenze.
Un estratto della parte finale del libro tratteggia le linee dell’analisi svolta dagli autori.
“L’ipotesi da cui è partita questa ricerca, ovvero che l’abbassamento dell’asticella accrescesse le diseguaglianze, pare pienamente confermata dai dati. E probabilmente lo sarebbe ancora di più se fossimo stati in grado di misurare la qualità dell’istruzione in modo più accurato.
Ora sappiamo che, sul destino sociale di un ragazzo, non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione. A parità di altre condizioni, una scuola indulgente e di bassa qualità riduce le chance di successo, ma soprattutto – qui sta il punto cruciale – una cattiva istruzione amplifica il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi. La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza.
Ed ecco il paradosso. Chi ha voluto, o perlomeno permesso, l’abbassamento dell’asticella della valutazione? Chi si è battuto perché certe materie fossero alleggerite, o addirittura scomparissero? Chi ha combattuto contro gli sbarramenti – esami, propedeuticità, requisiti di ingresso – che un tempo proteggevano gli studenti dall’intraprendere studi per cui non avevano le basi?
Se abbiamo un minimo di lucidità, dovremmo dire: quasi tutti lo abbiamo voluto, o almeno permesso, o quantomeno ne abbiamo usufruito. A pochi genitori piace che i propri figli siano bocciati, o che debbano scegliere troppo presto un indirizzo di studi, o che non possano frequentare qualsiasi università, o che una volta scelta una facoltà non ottengano l’agognato titolo di dottore.
Ma se dal piano generale, quello delle responsabilità collettive, ci spostiamo a quello delle responsabilità politiche e culturali, lì il discorso cambia. Solo un cieco non vedrebbe come sono andate le cose: è la cultura progressista che si è battuta per la democratizzazione della scuola; è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come “diritto al successo formativo”; è la cultura progressista che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare falsi attestati.
Bollati come reazionari, o più benevolmente come nostalgici, liquidati come incapaci di stare al passo con i tempi, i contrari alla finta democratizzazione della scuola hanno perso la loro battaglia. Ora non provano più nemmeno a dire la loro, perché sanno che le cose non possono cambiare, o meglio possono cambiare in una direzione sola: quella di un ulteriore abbassamento, naturalmente travestito da modernizzazione.
Quanto alla cultura progressista, alle legioni di pedagogisti, linguisti, intellettuali più o meno impegnati che hanno promosso la distruzione della scuola e dell’università come luoghi di cultura, non hanno nemmeno più bisogno di sostenere le loro idee, perché quelle idee hanno vinto. Anzi stravinto. Sono nelle cose stesse, e probabilmente anche nello spirito dei tempi.
Che poi queste idee abbiano reso sempre più difficile, in questo paese, la formazione di una vera classe dirigente, preparata e responsabile; che quelli che nonostante tutto ce l’hanno fatta siano perlopiù costretti a emigrare all’estero; che la mancanza di basi impedisca alla stragrande maggioranza dei giovani di completare gli studi universitari (in Europa solo la Romania ha meno laureati di noi); tutto questo non sembra importare molto a nessuno.
Eppure dovrebbe importare, almeno ai veri progressisti. Chi crede nell’uguaglianza delle condizioni di partenza, chi pensa davvero, come recita la Costituzione, che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, dovrebbe battersi perché tutti possano cimentarsi con successo in studi alti, non abbassare il livello perché tutti possano vincere. E invece è precisamente questo – abbassare per democratizzare – che è stato fatto, proprio da coloro che proclamavano di avere a cuore le sorti degli umili.
No, cari finti progressisti, su questo avete toppato. È stato uno sbaglio enorme. Il danno che avete inferto al nostro paese è grande, ma il danno che avete inferto ai ceti popolari è ancora più grave, e non scusabile. Perché l’abbassamento degli standard ha aumentato, non ridotto, le diseguaglianze sociali. Ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta, e avete avuto il becco di farlo in nome loro.
Imperdonabile.
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