Riflessioni sul modello Germania alla vigilia del voto (di Salvatore Sinagra)
Settembre 2013, la Germania ritorna al voto dopo quattro anni di crisi e di disordini per il mondo. Le elezioni di domenica secondo molti analisti politici e finanziari saranno importantissime per l’Europa. I democristiani della signora Merkel sembra cresceranno di oltre 5 punti rispetto alle ultime elezioni federali sfiorando il 40%, ma tanto non basterà se i liberali dovessero sparire dal parlamento; alla “cancelliera” allora servirà un nuovo partner di governo e dovrà trattare con almeno un partito di sinistra.
La crescita dei consensi di “Angie” può essere considerata un segnale della soddisfazione dei tedeschi per come vanno le cose nel loro paese? Difficile dirlo; forse il premier uscente vola nei sondaggi perché i tedeschi non vedono alternative o perché ritengono che tutto sommato Angela Merkel sia la persona migliore per difendere l’interesse tedesco in Europa e nel mondo. Il quadro è complicato dalla circostanza che in Germania la sinistra ha fatto riforme di solito care alla destra quali il riordino dei sussidi e adesso i democristiani sembrano voler correggere il sistema impostato dalla coalizione rosso-verde con misure care alle sinistre quali il salario minimo ed interventi volti ad arginare la crescita degli affitti.
Il paese di Goethe, almeno visto da fuori, è il vero vincitore della globalizzazione: gli Stati Uniti appaiono appannati, sul Giappone vi sono tanti dubbi, i paesi mediterranei soffrono e i paesi emergenti sono abbastanza sotto le attese. Eppure, alla vigilia di uno dei confronti politici più importanti della storia moderna, alcune testate tedesche enfatizzano i costi sociali del “nuovo modello renano”, basato sulla piena occupazione, ma anche su salari bassi e precariato. Dal 2007 in avanti, nonostante la crisi mondiale e nonostante i problemi dell’area euro, l’andamento del Pil tedesco è stato sorprendentemente positivo; e però il Pil ci dice come sta un paese, non come stanno i suoi abitanti. Certo, la sua contrazione di solito produce devastanti aumenti della disoccupazione, ma della sua crescita spesso non ne beneficiano tutti.
E’ innegabile che dall’approvazione delle leggi con cui il governo di centro sinistra tedesco è intervenuto sul mercato del lavoro la disoccupazione è calata sensibilmente: si è ridotta in tempo di crisi dal 12 al 6% in circa dieci anni (la coeva legge 30 del 2003, approvata dal parlamento italiano, di certo non ha avuto gli stessi risultati).
In Italia non si fa altro che parlare di modello tedesco, e non solo con riguardo al mercato del lavoro. Dal nostro (a mio parere disinformato) dibattito sul lavoro mi pare di capire che è diffusa in Italia la tesi secondo cui i pregi del modello tedesco sarebbero elevati salari, un mercato del lavoro non troppo frammentato, tutele per tutti lavoratori, mentre i costi sarebbero orari di lavoro più lunghi che in Italia e maggiori possibilità di licenziare. La realtà tedesca, forse molto più frastagliata di quella italiana per via di un maggiore ricorso alla contrattazione aziendale e dell’autonomia dei lander, è probabilmente diversa. Le retribuzioni, ancora abbastanza alte se comparate a quelle di molti paesi europei, sono ormai da molti anni in contrazione in termini reali; mediamente in Germania si passa meno tempo al lavoro che in Italia. La disoccupazione è scesa di continuo per un decennio nella sostanza traducendo in realtà lo slogan dei sindacati “lavorare meno, per lavorare tutti”; tuttavia, se i costi di tale approccio secondo i sindacati sarebbero dovuti ricadere sui ricchi e sulle imprese, almeno in parte sono stati pagati dai lavoratori. Abbondano i contratti atipici, ma licenziare chi ha un indeterminato sembrerebbe sia più difficile che in Italia, almeno così affermano alcuni studi dell’OCSE. Non è vero che in Germania non esistono normative analoghe al nostro articolo 18 dello statuto dei lavoratori, anche se vi sono incentivi e sistemi che spingono al patteggiamento per evitare il ricorso al giudice ordinario.
Insomma ci sono abbastanza elementi per dire che in Germania molte cose funzionano, forse non per affermare che gira tutto alla perfezione.
La Germania non di certo il paese dei balocchi. Per esempio, la sensazione è che le buone retribuzioni tedesche siano ottenute mediando quelle relativamente alte dei lavoratori qualificati e dei dipendenti delle aziende che presidiano le filiere produttive più ricche e quelle molto basse di chi svolge lavori ritenuti a “basso valore aggiunto” o lavora per imprese traballanti. Per esempio nello stabilimento Volfsburg della Volkswgen un operaio non specializzato guadagna 2.800 lordi al mese, mentre nel settore della distribuzione vi sono macellai pagati 5 euro l’ora .
Da un recente e lungo articolo di Die Zeit emerge che in Germania mediamente in un anno si lavora per meno di 1.400 ore. Se si ipotizzano 200 giornate lavorative (forse anche qualcuna in meno di quelle che un lavoratore full time fa in Italia) si arriva ad un orario giornaliero di meno di sette ore. Tuttavia anche questo dato è ottenuto mediando realtà molto diverse, e, secondo il quotidiano tedesco, la gran parte del “popolo del part time” in Germania non è fatto di madri che vogliono più tempo per i loro figli, ma di soggetti deboli che vorrebbero lavorare di più e spesso si fa fatica a ritornare all’orario pieno quando cambiano le priorità. In sostanza il mondo del lavoro tedesco sembrerebbe generare grandi disparità. Il welfare, rimodulato nei primi anni del nuovo millennio, con una spesa compresa tra i 10 e i 20 miliardi l’anno in sussidi e politiche attive del mercato del lavoro, riesce ad alleviare i costi sociali del modello tedesco grazie al fatto che i disoccupati sono relativamente pochi e la bassa evasione fiscale non solo rende sostenibili i conti dello Stato ma facilita la corretta allocazione della spesa pubblica.
Nonostante qualche limite, non convince certa stampa e certo web che vuole dipingere la Germania come un treno su un binario morto. Per esempio, qualcuno racconta dell’intollerabile disparità tra due operai che fanno lo stesso lavoro, il primo con un contratto a tempo indeterminato guadagna oltre 2.500 euro al mese, il secondo, un lavoratore interinale guadagna circa 1.500 euro. Qualcuno potrebbe chiedersi che differenza c’è con l’Italia. La risposta è semplice. Nel nostro paese il lavoratore tutelato ed il precario lavorano fianco a fianco come in Germania, tuttavia il lavoratore tutelato italiano guadagna quanto il precario tedesco e il precario italiano guadagna una cifra che somiglia più a un sussidio di disoccupazione che a uno stipendio.
Altri casi molto citati nella narrazione dei paesi più solidi dell’area euro, Germania e Francia soprattutto, sono quelli delle famiglie mono-genitoriali o dei padri separati. Un padre separato in Germania fa fatica ad arrivare a fine mese, un padre separato in Italia se non è veramente benestante rischia di non potersi permettere una casa e di dover passare le sere in fila alla mensa della Caritas. Insomma i problemi oggi sono gli stessi sia nei paesi forti che in quelli deboli, ciò che cambia in modo vistoso è la lor intensità.
Certo sarebbe una follia pensare di potere risolvere tutti i problemi dei paesi mediterranei copiando dalla Germania senza ragionare. Le politiche volte al contenimento della crescita degli stipendi volute dal governo Schroeder in Italia avrebbero effetti drammatici, e le coeve riforme del welfare in Italia sono difficili da replicare: molto di quello che in Germania dieci anni fa è stato riformato in Italia deve essere costruito da zero. La Germania non è il modello perfetto, soprattutto perché non è facilissimo da replicare, ma è pur sempre per molti aspetti un modello da studiare nel suo complesso e nelle sue complessità e criticità.
Salvatore Sinagra
a Mrossetti
Chiaramente il mio articolo non voleva essere un’analisi omnicomprensiva, ho solo messo insieme alcuni elementi che reputavo interessanti. In Germania la produttività del lavoro è probabilmente più elevata che in Italia perchè le imprese tedesche mediamente presidiano parti delle filiere produttive che creano maggiore valore aggiunto. Dicendola con uno slogan “si diventa produttivi scegliendo di fare cose produttive”. Sull’export italiano non sono un grande esperto, credo tuttavia che la popolazione delle imprese italiane sia molto eterogenea. Ve ne sono alcune molto apprezzate nel mondo che vanno bene, altre (forse ormai troppe) che pagano il nanismo e gli scarsi investimenti. Andavano bene negli anni settanta perché competevano (sul prezzo) con aziende europee, adesso fanno fatica perchè sul prezzo vengono battute da aziende extraeuropee. Forse le conclusioni, anche per motivi di format, sono troppo stringate, ma quando mi riferisco a modello difficile da replicare penso anche a corruzione, evasione fiscale etc..
Corretta e realistica valutazione del “miracolo” tedesco. Ciononostante nn deve ingannarci: Italia è distante anni luce dalla produttività tedesca alla quale l’articolo non accenna. Cosi come tralascia che uno dei driver più importante dello sviluppo economico è l’export, per non parlare degli investimenti in ricerca, la capacità di attrarre capitali con la certezza giuridica e un basso livello di corruzione ecc.