Riflessioni sull’Afghanistan
Chi si stupisce della facilità con la quale l’Afghanistan è stato consegnato alla coalizione dei talebani dovrebbe riandare con la memoria al 29 febbraio del 2020 quando a Doha capitale del Qatar fu firmato l’accordo tra gli Usa e i taliban. Era già tutto previsto e il ritiro dei militari occidentali era scandito da date e quantità dei contingenti. Il completo disimpegno e, quindi, l’abbandono del territorio era stabilito in 14 mesi. Ne sono passati oltre 17. Dei tanti commentatori che oggi si affannano disperati a descrivere la “resa” degli americani e la bruciante sconfitta di fronte all’armata raccogliticcia dei talebani qualcuno ha dato un’occhiata al calendario?
L’unica novità è stata la dissoluzione dell’esercito afgano accreditato di 300 mila unità e riccamente armato a spese degli Stati Uniti. Non solo si è sciolto sotto il sole delle montagne afgane, ma si è anche scoperto che 300 mila erano le paghe da versare ai comandanti afgani e non gli uomini in armi. D’altra parte i servizi segreti occidentali non si sono nemmeno accorti che mancava l’elemento fondamentale a quell’esercito: la motivazione cioè la finalità strategica. Se ne è accorto Biden adesso ed, infatti, nel suo discorso di ieri, ha sottolineato che era inutile la presenza dei militari Usa perché quelli che dipendevano dal governo afgano non avevano alcuna intenzione di combattere contro i taliban. Biden ha anche detto che lo scopo degli Usa non è mai stato quello di costruire un nuovo Afghanistan secondo gli schemi occidentali. Si trattava solo di decapitare Al Qaeda e stroncare il terrorismo. Evidentemente il Presidente degli Usa pensa di rivolgersi a persone con la mente rallentata perché giustificare una guerra che dura venti anni e che è costata migliaia di vittime oltre che mille miliardi di dollari con un obiettivo così limitato è una presa in giro clamorosa.
Adesso vengono messe in risalto tante analisi pubblicate negli ultimi anni in base alle quali sembra proprio che l’Afghanistan non abbia alcun valore strategico e che per questo gli Stati Uniti si siano decisi ad andarsene. Dei loro alleati non vale nemmeno la pena parlarne. Sono stati al traino senza poter modificare nulla dei piani statunitensi.
Il discorso di Biden, però, è la dimostrazione che i politici devono innanzitutto confezionare messaggi per gli elettori anche se appaiono assurdi. In realtà assurda è stata la guerra così come lo sono state quelle in Iraq e in Libia. Si è detto tante volte che erano spinte dall’esigenza di controllare i pozzi di petrolio. Spiegazione che non spiega un bel nulla e la stabilità dell’Arabia Saudita, grande centro propulsore del fondamentalismo islamico, ma anche grande alleato degli Usa lo dimostra. Chi ha come unica ricchezza i pozzi di petrolio non può fare altro che venderlo a chi lo vuole comprare. Non c’è nulla da controllare e, meno che mai, scatenando guerre. I produttori di petrolio sono tanti e la difficoltà è da decenni quella di tenere alti i prezzi vista l’abbondanza della materia prima. Gli Stati Uniti, poi, sono diventati produttori addirittura in grado di esportarlo il petrolio e ciò che temono sono i prezzi troppo bassi.
Ma se non di petrolio si tratta cosa spiega la tendenza degli Usa ad impegnarsi in guerre delle quali sfugge il valore strategico o che si rivelano catastrofiche per gli equilibri mondiali? Probabile che abbiano ragione quanti imputano al complesso militare – industriale il telecomando nascosto che orienta le decisioni dei politici. Secondo questa interpretazione gli Usa sono una potenza che ha bisogno di far funzionare il suo esercito per motivare spese colossali e un pretesto in giro lo si trova sempre. Ciò che sembra difettare, invece, è una visione strategica. Dell’Afghanistan si è già detto, ma un discorso analogo va fatto per l’Iraq e per la Libia. Si è scelto di destabilizzare un’area del mondo da sempre instabile. Le motivazioni da dare in pasto ad opinioni pubbliche intrise di idealismi romantici sono sempre le stesse: ci sono dittatori sanguinari, ci sono i terroristi e la nostra coscienza di occidentali ci obbliga ad intervenire perché i diritti umani sono universali.
Una visione oggettivamente limitata. Si fa finta di ignorare che su sette miliardi e mezzo di abitanti della Terra i valori e i diritti che la cultura occidentale ha inventato sono compresi ed accettati da una minoranza. E già che ci siamo diciamo pure che porsi come obiettivo morale prima ancora che politico un incremento della popolazione mondiale senza limiti e senza una strategia è una drammatica illusione. Cos’altro significano gli appelli che ci accompagnano da ben più di mezzo secolo ad agire contro la fame, le malattie e la povertà in ogni angolo del pianeta? Che le cose vadano bene per l’umanità nonostante le guerre e le catastrofi lo dimostra l’aumento di oltre tre volte degli abitanti della Terra in poco più di un secolo. È il progresso economico e scientifico che porta questi risultati. I governi e la parte più consapevole delle opinioni pubbliche farebbero bene a concentrarsi su come gestire una crescita così impetuosa che continuerà. Questo per evitare che la natura applichi le sue regole, spietate, di sfoltimento delle popolazioni troppo numerose: guerre, fame e malattie.
Dunque quando ascolteremo il prossimo appello ad intervenire per riparare un torto dall’altra parte del mondo ricordiamoci di tenere i piedi per terra. Va molto di moda lo slogan tanto caro a Gino Strada: “la guerra non ha mai risolto niente”. Purtroppo è un’affermazione non vera. L’umanità è andata avanti a guerre. Come siamo oggi in Occidente lo dobbiamo alla Seconda Guerra Mondiale non al caso, ai buoni sentimenti o ad una divinità. L’uso della forza può essere necessario, ma, come l’esempio dell’Afghanistan dimostra, deve avere obiettivi chiari e realistici. Senza strategia si fanno solo danni
Claudio Lombardi
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