Salari, precari e cittadini (di claudio lombardi)

Una ricerca dell’OCSE relativa al 2008 e resa nota nel corso del 2009 merita di essere ripresa e commentata. I dati nudi e crudi dicono che gli italiani guadagnano poco. Fra i 30 paesi riuniti nell’OCSE i salari italiani occupano il 22° posto sia al lordo che al netto delle imposte. La classifica dell’OCSE, inoltre, è stata realizzata in base al potere di acquisto e non in base all’importo nominale riportato sulle buste paga. Nel confronto con i paesi dell’Europa occidentale solo in Portogallo i lavoratori se la passano peggio. E non si tratta solo del “cuneo fiscale” cioè della differenza fra quanto costa un lavoratore ad un’azienda e quanto incassa effettivamente: anche gli importi lordi sono bassi. Senza tirare in ballo le cifre – ci vorrebbe più spazio e andrebbero esposte in maniera analitica – ciò che importa è tornare sulla constatazione che emerge dalla ricerca dell’OCSE e ribadire che in Italia i  lavoratori dipendenti guadagnano, in media, poco; meno certamente dei  loro colleghi francesi, danesi o tedeschi. Già questo è un dato che colpisce, ma non è l’unico ad obbligarci ad una riflessione.

Sempre nel passato 2009 la Commissione europea (Direzione occupazione affari sociali e pari opportunità), sanciva in un rapporto (disponibile anche su internet) che il rischio povertà,  aggravato dalla mancanza di efficaci misure per sostenere chi si trova in stato di disoccupazione con un reddito minimo garantito, pende su un quinto degli italiani perché il loro reddito mensile si aggira intorno ai 750 euro. Non di sola disoccupazione, però, si tratta perché sappiamo tutti molto bene che il lavoro precario e mal pagato è diventato la modalità ordinaria di accesso alla vita lavorativa per i giovani e che, per molti, si trasforma in una forzata giovinezza visto che non si porta mai ad un impiego stabile anche dopo molti anni di precariato. Alla precarietà, inoltre, si aggiunge il ricatto dei salari bassi e dell’assenza di garanzie (ferie, liquidazione, malattia ecc) con la minaccia di uscire dal giro dei contatti che portano ad un lavoro qualunque e di rimanere senza niente in mano. Succede così che si diffonde una nuova categoria di lavoratori, già ben conosciuta negli USA: i working poors cioè i lavoratori poveri. Non occorre aggiungere che su queste basi milioni di giovani non potranno mettere le basi della loro vita autonoma e, men che meno, pensare di costruire una famiglia. Viene da sorridere di rabbia a pensare a quanto tempo ed energie si sono sprecate a “difendere” la famiglia dall’attacco di pericolosi nemici come i patti di convivenza senza aggredire il vero problema di un sistema economico e sociale che colpisce senza pietà i più deboli e i giovani che non provengono da famiglie agiate e che non si fanno strada grazie ai favoritismi e alla corruzione per i quali il nostro Paese è famoso in tutto il mondo occidentale.

È lecito domandarsi che fine fanno i diritti di cittadinanza in questa situazione? Qualcuno si scandalizza se si fa notare che la crescita esponenziale dei guadagni dei top manager (anche delle imprese di proprietà pubblica) e le remunerazioni dei membri dei consigli di amministrazione (molti con una pluralità di poltrone) ha poco a che fare con regole di mercato vere e che somiglia, invece, alla pura e semplice imposizione della legge della giungla che vede vincente sempre i più forti?

È lecito domandarsi se questa situazione fa bene al nostro Paese e al suo futuro?

Sì è lecito ed è anche necessario cominciare a vedere i diritti non separati dalle condizioni materiali della loro realizzabilità. Ed è anche lecito cominciare a non considerare inevitabile, quasi una legge di natura, la prevaricazione di chi dispone del potere di dettare legge ad altri e poi usa il potere per fare i propri interessi. Se si comincia a dire chiaramente che è ora di finirla forse si riuscirà a creare un clima diverso basato su un’opinione pubblica che metterà sotto accusa i comportamenti antisociali di chi al posto dei meriti e dei talenti mette lo sfruttamento di posizioni di potere sia in ambito pubblico che privato. Avere posto a base dello Stato una Costituzione che riconosce nel lavoro l’elemento che identifica la posizione dell’individuo nella società può aiutare a riconoscersi in valori che non sono per niente vecchi e polverosi. Disconoscere questo valore e gli altri che ne conseguono può, forse, giovare a chi considera l’individualismo competitivo l’elemento fondante della modernità. Così si maschera meglio una realtà nella quale le sperequazioni fra chi sta al vertice della scala sociale e chi sta alla base sono drammaticamente aumentate. Anche in questo caso la cittadinanza attiva è una risposta giusta a chi vorrebbe vedere solo individui in lotta l’uno con l’altro per conquistare posizioni di forza dalle quali perseguire il proprio interesse senza l’impaccio della solidarietà e della socialità.

Claudio Lombardi responsabile interregionale di Cittadinanzattiva di Umbria, Toscana e Marche per la partecipazione

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