Spending review ? sì grazie, ma seria (di Claudio Lombardi)
Con un debito pubblico che si avvicina ai 2000 miliardi di euro una vera revisione della spesa pubblica è inevitabile. Per due motivi: 1. Perché non avrebbe senso non chiedersi se il livello attuale della spesa pubblica corrisponde a risultati concreti, visibili e percepibili dai cittadini in livello e qualità dei servizi nonchè misurabili in termini di efficienza del sistema-paese; 2. Perché, appunto, i risultati del debito pubblico cioè come sono stati spesi i soldi finora, non sono visibili in alcun modo.
Questo secondo punto rinvia a due aspetti cruciali di come si sono strutturate le decisioni politiche e la loro attuazione in Italia: 1. La politica con i suoi meccanismi decisionali ha espresso un tipo di rappresentanza che ha usato le risorse pubbliche o i beni comuni controllati dai poteri pubblici (non solo soldi, ma anche territorio e ambiente e persino legalità) per premiare gruppi sociali o imprenditori o procacciatori di voti o raggruppamenti di interessi. Più che di disegni strategici di governo e di sviluppo del Paese si è trattato di redistribuzione di redditi (comunque ottenuti) in base alle convenienze del momento; 2. I cittadini sono stati in gran parte coinvolti in questo sistema di gestione del potere ricavandone vantaggi grandi e piccoli, leciti e illeciti. La gamma di tali vantaggi è vasta ed è giunta anche al mercanteggiamento dei diritti trasformati in moneta di scambio con la quale acquistare pace sociale o smorzamento delle pressioni rivendicative. L’opera corruttrice è arrivata dappertutto e ha permesso la costruzione di piccole e grandi rendite di posizione che facevano parte della coscienza collettiva che non è mutata in maniera radicale negli ultimi anni, anzi, forse, si è fatta anche più cinica . C’è stato un tempo, immortalato persino in alcuni film con protagonisti i “mostri sacri” della commedia all’italiana (Sordi, Manfredi, Gasman), che persino ottenere un certificato all’anagrafe richiedeva una raccomandazione.
Senza prendere atto di questo retroterra sul quale si è formata la convivenza civile degli italiani e il loro rapporto con lo Stato è difficile capire come siamo arrivati fin qui, è difficile cambiare strada, è impossibile risolvere la crisi con una nuova stagione di sviluppo.
I nostri problemi non giungono dagli USA o dall’Europa o dalla speculazione finanziaria o, meglio, arrivano anche da lì, ma sono ingigantiti dalla sclerosi di cui soffre l’Italia da decenni.
Per questo una revisione della spesa pubblica dovrebbe essere l’occasione di una presa di coscienza collettiva degli italiani che li porti a rifiutare il modello di sistema del passato e che faccia avanzare quelle opzioni politiche che propongono una rivoluzione civile che dia vita e spazio ad una nuova rappresentanza, ad una revisione della democrazia, ad un cambiamento drastico della politica.
L’opera del governo Monti può solo essere l’avvio di una transizione verso quel tipo di trasformazione, ma non può guidarla.
Per questo tutti i provvedimenti adottati dal governo in questi mesi stanno in bilico fra soggezione al vecchio sistema di potere e apertura ad un nuovo corso. Anche la spending review si colloca su questo crinale: alcuni elementi di novità, tanta prosecuzione di politiche vecchie. Fissare un obiettivo di pareggio di bilancio, decidere la cifra che serve per arrivarci e, quindi, rivedere la spesa per tagliarla di quel tanto che basta è uno schema ben conosciuto e praticato che non ha mai risolto niente; al massimo ha permesso di svoltare il momento di crisi rinviando l’aggressione ai problemi di fondo e ai meccanismi malati che si sono, infatti, riattivati sempre creando le condizioni per nuovi interventi.
L’Italia è un paese ricco che produce reddito e che, nonostante il suo sistema di potere, nonostante la mancanza di una cultura civile unificante, nonostante la lontananza fra cittadini e Stato e il rapporto degenerato che ha fatto di quest’ultimo il bancomat per ogni genere di spinta corporativa, nonostante una presenza pervasiva di poteri criminali in grado da tempo di controllare parte dell’economia e della politica, nonostante tutto ciò è riuscito a restare una delle potenze economiche mondiali. Quasi un miracolo.
Ma oggi il sogno è finito, l’incantesimo non si può più ripetere. L’ex terzo mondo ha sviluppato una potenza economica e un dinamismo incomparabili con la paralisi di un paese come il nostro. Non c’è più spazio per svalutazioni competitive e non ci sarà più un surplus di ricchezza da redistribuire. Al massimo si potrà tirare a campare accettando una riduzione del nostro tenore di vita tutto incluso (capacità di spesa, redditi medi e bassi, servizi pubblici) e una lotta ancora più feroce dei gruppi privilegiati per ritagliarsi fette di ricchezza.
Che fare allora? In democrazia l’unica cosa sensata è che avanzi quella parte dei cittadini più cosciente dell’urgenza di un cambiamento e sappia generare una nuova classe dirigente cominciando ad aggregarne pezzi da subito sia a livello territoriale sia nelle sedi di comunicazione e di formazione delle opinioni. Questo è il grande compito che spetta ai movimenti che animano la società italiana. Ed è il terreno sul quale bisogna incontrare il meglio della politica sopravvissuta a decenni di corruzione. Bisognerebbe riuscire a far diventare l’Italia un gigantesco laboratorio politico e civico per il cambiamento. Allora si potrebbe ricostruire su nuove basi.
Claudio Lombardi
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