Sul salario minimo c’è ancora tanto da discutere

Un articolo di Andrea Garnero (Economista del lavoro presso l’OCSE) tratto da www.lavoce.info

La contrattazione collettiva non basta

Nella discussione in corso sul salario minimo sono diversi i punti che suggeriscono che il dibattito sia ancora lontano dall’esaurirsi. Su lavoce.infoPietro Ichino ne ha toccati due che riguardano chi è favorevole all’introduzione di un salario minimo. Francesco Lombardo e Michele Tiraboschi su Adapt sollevano dubbi di costituzionalità sulla norma che prevederebbe un obbligo per i contratti collettivi di non scendere sotto il minimo. Da parte mia, oltre alle perplessità sul metodo utilizzato (o non utilizzato) per arrivare alla cifra di 9 euro, già espresse in passato e ancora valide, mi soffermo su altre due questioni: una che riguarda solo chi è fermamente contrario a un salario minimo per legge, una seconda, invece, che tocca sia la proposta di legge depositata in Parlamento sia chi vi si oppone.

Uno degli argomenti principe di chi ritiene che un salario minimo non sia necessario è che, grazie a una copertura dei contratti collettivi molto elevata, la contrattazione collettiva già svolge la funzione di garantire salari base a tutti (e molto altro), si veda per esempio il “Compendio del catechismo sul salario minimo” di Emanuele Massagli sempre su Adapt. Come già richiamato in un precedente articolo dedicato alla direttiva europea per salari minimi adeguati, effettivamente tutte le stime sul tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia la indicano come quasi totale, ma solo le stime Cnel-Inps permettono di separare il grano dal loglio, cioè i contratti firmati da sigle sindacali e datoriali vere da quelli “pirata”. Tuttavia, le stime Cnel-Inps si basano sulle dichiarazioni che le imprese rendono all’Inps a fini previdenziali, ma non riflettono necessariamente il Ccnl che è effettivamente applicato e comunicato al lavoratore. L’informazione sarebbe disponibile solo se si riuscisse a allineare quel dato con le informazioni da rendere nel contratto individuale di lavoro e con le comunicazioni obbligatorie presso il ministero del Lavoro, che però non usano il codice alfanumerico unico Cnel-Inps e quindi non possono essere utilizzate per distinguere contratti “buoni” da contratti “pirata” (vi vuole porre rimedio una proposta di legge Cnel in attesa di discussione). Anche assumendo che la copertura sia davvero del 97 per cento, va comunque considerato l’effetto “spada di Damocle” che i contratti pirata possono rappresentare al momento della negoziazione dei contratti “veri”. Se è teoricamente possibile uscire dal contratto collettivo principale per crearsene uno pirata, il potere contrattuale dei sindacati si indebolisce ulteriormente, anche se il Ccnl sarà alla fine rinnovato. Infine, il significativo ritardo nel rinnovo dei contratti rappresenta un limite importante nella capacità della contrattazione collettiva di proteggere i lavoratori pagati meno, soprattutto in un momento di inflazione elevata. Accontentarsi di dire che la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani è coperta dalla contrattazione collettiva non è più un argomento sufficiente per rifiutare l’eventualità di un salario minimo per legge.

Altrimenti non si capisce come mai, a fronte di trattamenti economici nei contratti collettivi che sulla carta vanno dai 9 a oltre gli 11 euro, metà dei lavoratori del privato guadagni meno di 11,70 euro all’ora. Non è il nero, non è il part-time, non è il precariato (Istat misura i salari orari dichiarati dalle imprese). Ma il divario tra la carta dei contratti collettivi e la pratica della loro applicazione.

La rigidità del sistema

Un secondo punto poco discusso accomuna i due fronti del dibattito: entrambi concordano sulla necessità di estendere i contratti collettivi rappresentativi. Questo avrebbe effettivamente il potenziale di estirpare i contratti pirata ed evitare il rischio di fuoriuscita dal Ccnl per pagare il nuovo minimo per legge. Tuttavia, ciò solleva un altro problema, molto presente nel dibattito fino al 2012-2013 e poi sparito: la rigidità del sistema di contrattazione, che fissa griglie salariali valide da Merano a Lampedusa. I contratti pirata, a modo loro, rappresentano una risposta (ai margini della legalità) a questa rigidità. Alcuni studiosi come il giuslavorista Michele Faioli, infatti, parlano di “aziendalizzazione del contratto nazionale”: essendo limitati i margini legali e pratici di deroga a livello di imprese e territorio, le aziende si fanno il proprio “contratto nazionale”. Per dare una risposta duratura ed economicamente sostenibile al fenomeno, è quindi necessario non solo affrontare il quadro normativo, ma anche la ragione economica di fondo. Sul modello di altri paesi europei, l’efficacia dei contratti non dovrebbe essere automatica, ma concessa dal ministro competente o da una autorità indipendente in base alla rappresentatività dei firmatari e alla presenza di maggiori margini di flessibilità per la contrattazione aziendale e territoriale. I contratti nazionali, per esempio, potrebbero prendere la forma di contratti-quadro che lascino la possibilità di rinegoziarne i termini a livello di impresa entro certi limiti, come in alcuni paesi scandinavi. Oppure, dovrebbero lasciare la possibilità di esenzione dalla estensione in determinate condizioni, per esempio in caso di crisi aziendale o per aziende localizzate in aree economicamente depresse. L’accordo interconfederale del maggio 2011 (quello che fece seguito all’accordo aziendale Fiat del 2010) già prevede la possibilità di rinegoziare al livello aziendale molte voci del contratto nazionale, ma non il minimo tabellare retributivo. Non serve pensare a una piena derogabilità, basta che i Ccnl definiscano le forchette che la contrattazione di secondo livello potrà poi adattare, invece di griglie prescrittive e inderogabili. Limitarsi a dare forza di legge ai Ccnl esistenti, come proposto in questi giorni, senza affrontare la radice dei problemi, rischia di far uscire la questione dalla porta per vederla rientrare dalla finestra.

In conclusione, ribadisco la proposta fatta nella relazione sul lavoro povero lo scorso anno con altri colleghi: non partire con una norma generale, ma sperimentare un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità, per poterne valutare adeguatamente gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali.

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