Top manager e lavoratori poveri

Adriano Olivetti diceva che “nessun dirigente deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso”. Vittorio Valletta presidente della Fiat dal 1946 al 1966 guadagnava 12 volte il salario operaio. Tati anni dopo, in una Fiat diventata italo americana, Sergio Marchionne portò il moltiplicatore a 437 volte. Tavares AD di Stellantis va oltre e tocca i 19 milioni di euro con un multiplo di 800 volte la paga operaia. Sono dati oggetto di una recente ricerca di Domenico Affinito e Milena Gabanelli pubblicata sul Corriere della Sera (qui). Niente di nuovo se non la conferma di un andamento che dura da tanti anni. Negli Usa uno studio citato nell’articolo ha calcolato che nel periodo 1978 – 2018 l’incremento delle retribuzioni medie dei dipendenti è stato di circa il 12%; quello dei top manager di ben il 940%.

La giustificazione è sempre la stessa: è il mercato e se un AD capace fa crescere i profitti è giusto che riceva un premio. In realtà non è proprio così perché quasi mai un manager paga per i pessimi risultati della sua gestione. E poi è la sproporzione che colpisce. Un manager non raggiunge i risultati da solo, ma solo grazie al lavoro di tutti i dipendenti di un’impresa. Loro, però, ne traggono un beneficio minimo e lui moltiplicato per cento o per mille.

Nei guadagni dei top manager non c’è razionalità. Più che manifestazioni di disuguaglianza sono pure affermazioni di potere, di fissare il proprio prezzo e di farselo pagare.

Di contro a questi dati ci sono quelli delle retribuzioni della massa dei lavoratori. Il recente Rapporto INPS (qui) dice ciò che è ben noto: milioni di persone guadagnano pochissimo. Nello specifico il Rapporto afferma che il 23% percepisce meno di 780 euro al mese. Anche in questo caso la giustificazione è il mercato e, in effetti, se per mercato si intende il potere di cui si è detto a proposito dei manager, sì un lavoratore normale non ne ha per niente. Altra spiegazione è la bassa produttività. Il lavoro povero sarebbe tale perché non incorpora una buona produttività. Tirando in ballo la scarsa produttività senza ulteriori specificazioni si suggerisce che la colpa sia dei lavoratori che si impegnerebbero poco. Ovviamente non è così e sarebbe onesto dirlo e ripeterlo sempre perché è facile cadere nell’equivoco. Ci sono molti motivi per una bassa produttività. In alcuni settori si comprimono i costi perché il contributo alla formazione del prezzo di un bene o di un servizio non deve eccedere i limiti che impone una idea distorta della concorrenza. Si considera normale che un rider consegni le pizze in bicicletta, d’inverno e magari sotto la pioggia per due euro. In questo modo la concorrenza si fa solo a spese dell’ultimo anello della catena. Invece la produttività può essere bassa perché il lavoro è organizzato male e ci sono degli sprechi e, inoltre, anche se bassa, può essere distribuita in modo iniquo. Ha suscitato scandalo “l’offerta di lavoro” che è stata fatta ad una ventenne in Campania: 280 euro al mese per dieci ore di lavoro al giorno sei giorni su sette. Ne è nato un piccolo scandalo, ma quante altre offerte di questo tipo, magari un poco più alte, ci sono e vengono accettate nel silenzio (o omertà?) generale? Lavori in nero che nemmeno rientrano nelle statistiche.

Spesso si collega il lavoro nero al reddito di cittadinanza e, purtroppo, in una realtà nella quale il lavoro povero è apparso invincibile non deve stupire che si cerchi di sommare il sussidio statale e una paga misera. Un’azione disonesta? Certo, ma che danneggia innanzitutto chi si accomoda così. È una resa al dilagare dell’illegalità e chi si arrende non lotterà per una maggiore giustizia sociale. Il cambiamento non arriva se tanti subiscono il ricatto del lavoro povero e dell’integrazione statale che appiana le tensioni. L’evasione fiscale e contributiva del datore di lavoro disonesto viene facilitata dalla connivenza di lavoratori che devono tacere per non perdere lavoro e RdC.

Le ingiustizie non fanno progredire una società, ma la bloccano. Chi ha potere ne ottiene sempre di più e si trasforma in casta intoccabile. Chi non ce l’ha non ha speranza di migliorare perché resta imbrigliato nella trappola della povertà.

La via d’uscita è una politica che punti allo sviluppo, a liberare capacità, a spianare la strada per farle esprimere con un sistema di formazione permanente. È un intervento pubblico che sappia usare bene le risorse, che decida le regole e che organizzi i controlli. Sembra poco, ma è proprio quello che è mancato finora

Claudio Lombardi

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