Tornare alla lira? (di Tullio Marra)

Da qualche tempo si moltiplicano le voci di chi auspica l’abbandono dell’euro e il ritorno alla vecchia lira. I sostenitori di questa proposta ritengono che sia una strategia efficace per rialzare la nostra economia, con la conseguente svalutazione che darebbe nuova competitività ai nostri prodotti Made in Italy. Il contesto è quello di una crisi economica innescata quattro anni fa dalla crisi finanziaria internazionale che è ancora ben lontana dal concludersi. Il quadro congiunturale delle economie avanzate e di quelle dell’area euro in particolare, è ancora pesantemente segnato dalla recessione e dalla contrazione dell’attività produttiva. La riduzione della domanda aggregata, conseguenza dei rigorosi processi di ridimensionamento del debito pubblico attuate attraverso misure di contenimento della spesa e di aumento della pressione fiscale, influisce negativamente su consumi e investimenti contribuendo, così, a deprimere ulteriormente le prospettive di ripresa.

In questo contesto l’idea di attuare da soli misure efficaci per una ripresa economica dell’Italia è completamente distaccata dalla realtà.

Sulla questione del ritorno alla lira è opportuno partire dai trattati che definiscono l’Unione Europea nei quali non sono previste norme per chi vuole abbandonare l’euro, ma solo per chi vuole lasciare l’UE. Di conseguenza, chi vuole ritornare alla lira dovrà uscire dall’UE.

Vediamo concretamente con quali passaggi e con quali conseguenze.

  1. Tutti i titoli di debito pubblico (i famosi BOT, BTP etc.) sono oggi denominati in Euro. Un abbandono della moneta unica porrebbe lo Stato di fronte a due scelte. Prima opzione: rinominare d’imperio tutti i titoli di debito nella nuova moneta. Questo equivale, né più né meno, che a un “default” ( in pratica “bancarotta”, cioè impossibilità di far fronte ai propri debiti), con relativa fuga degli investitori e impossibilità di trovare, per anni e anni, ulteriori finanziamenti sui mercati. Rinominare i debiti contratti in una valuta forte (l’euro) in una più debole ( la nuova lira) significa non pagarne una parte e infrangere i patti e i contratti con gli investitori. Ricordiamoci che poco meno del 50% del debito pubblico italiano è in mano a investitori esteri. Perché questo disastro? Almeno secondo le stime degli analisti, la nuova moneta, nel caso dell’Italia, si svaluterebbe subito dal 30% al 50% rispetto all’ euro e ciò a causa della crisi economica che precederebbe (e motiverebbe) l’uscita.
  2. Per le imprese si riproporrebbe, in forma addirittura più grave, il problema dei debiti contratti in Euro, specialmente con le Banche straniere. La conversione e successiva svalutazione della nuova lira renderebbe insostenibile ripagare i debiti in valuta “forte” (cioè l’euro) con conseguenze facilmente immaginabili. Quindi non solo il ritorno alla lira non favorirebbe ( almeno nel breve termine) la competitività delle imprese, ma provocherebbe fallimenti di massa.
  3. Grossi guai anche per le famiglie. Non appena si avesse il sospetto di una conversione forzata dei depositi da euro in nuove lire, ci sarebbe una corsa agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi in euro, metterli dentro una valigia e precipitarsi verso il più vicino paese ancora dell’area euro per versarli su un conto corrente. Ovviamente questa scelta “razionale” del risparmiatore sarebbe impedita dalle autorità con controlli molto stretti e severi alle frontiere. Risultato: tracollo del potere di acquisto dell’italiano medio in una misura che oscilla fra il 30% e il 50%. È appena il caso di osservare poi che la “corsa agli sportelli” in massa, è la tecnica migliore per far fallire le banche.
  4. Col 30-50% di svalutazione della nuova lira dovrebbe, però, essere più competitivo il nostro sistema industriale. Così si dice, ma non se ne può avere la certezza. Infatti, l’abbandono dell’Unione Europea porterebbe all’abbandono anche di tutti i trattati sul Mercato Unico che garantiscono la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. E non si capisce perché i paesi ancora nell’euro dovrebbero accettare, di buon grado, una simile concorrenza da parte di uno Stato secessionista. Non è un’ ipotesi molto lontana dalla realtà immaginare l’imposizione di tariffe doganali, cioè pesanti dazi, alle merci in arrivo del paese “secessionista”, per compensare i prezzi più bassi dovuti alla svalutazione.
  5. Ma non si vive di sole esportazioni. È prevedibile che svalutazioni di quella portata innescherebbero un’ iperinflazione generata dalle importazioni dalle quali dipendiamo a cominciare dai carburanti e dal gas che rincarerebbero in maniera più che proporzionale innescando una spaventosa crescita dei prezzi con conseguenze sociali drammatiche. Fra queste anche i mutui contratti in euro che potrebbero rincarare fino al doppio della rata attuale.
  6. Che fine farebbero le istituzioni democratiche responsabili dell’uscita dall’euro e della crisi che ne sarebbe all’origine? È facile immaginare che potrebbero essere travolte dai conflitti sociali e dalla drastica caduta del tenore di vita di decine di milioni di persone.

È logico, quindi, cercare di non uscire dall’euro affrontando la crisi europea. Un economista USA, Jacob Funk Kirkegaard, vi scorge novità positive sulle quali dovremmo far leva o, almeno, riflettere.
1) La Banca Centrale Europea si sta comportando sempre più come una vera Banca Centrale, sia fornendo liquidità alle Banche sia comprando ( sul mercato secondario e quindi non direttamente) i Titoli di Stato dei paesi in difficoltà come Spagna e Italia. Un Istituto ormai capace di imporre austerità fiscali e riforme ai paesi più recalcitranti. Insomma una visione più ampia della stabilità finanziaria che va oltre il mandato di tenere sotto controllo l’inflazione.

2) Un cammino ormai delineato (ed accettato) verso quell’ integrazione fiscale (regole comuni sul Bilancio degli Stati e controlli centralizzati a livello europeo ) necessaria a rendere più omogenee le economie dell’area euro e quindi più compatibili con la moneta unica. Un cammino non facile e che sarà lungo, ma alcuni passi come l’istituzione di un fondo per venire incontro agli Stati e/o Banche in difficoltà ( EFSF , European Financial Stability Forum) sono stati compiuti.

3) Una serie di riforme in corso d’opera per aumentare la concorrenza, la competitività, l’apertura di mercati prima chiusi, ridurre il ruolo dello Stato, nei paesi Mediterranei. Un fatto inconcepibile prima di questa crisi e che aiuterà l’Europa, nel suo insieme, ad affrontare le crisi del futuro ( in particolare quella demografica, cioè l’invecchiamento della popolazione).

4) Un riallineamento dei Partiti del centro sinistra dei paesi mediterranei verso posizioni meno ideologiche e più socialdemocratiche, alla Tony Blair anni ’90 (o socialdemocrazie nordiche anni ’70 e ’80). Quindi un cambiamento culturale che pone al centro la sostenibilità finanziaria delle politiche fiscali, economiche e del welfare.
5) Una ridefinizione dei confini del welfare che non consiste di soli tagli e sulla quale si sta creando un ampio consenso popolare e una visione che va oltre la pura protesta e la demagogia.

E, come conclude il suo articolo Jacob Kirkegaard, “ L’Europa ha molta strada da fare, ma sta usando bene la crisi”.

Tullio Marra

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