Trump e il problema delle destre nazionaliste
Non era mai accaduto nella pur tormentata storia degli Usa che un presidente in carica annunciasse il disconoscimento del risultato elettorale avanzando una preventiva accusa di brogli rivolta in special modo contro il voto postale che lui stesso ha cercato di rendere più difficile tagliando i fondi e nominando persone di sua fiducia in quel settore (un caso di sabotaggio?). E non era mai successo che si rivolgesse pubblicamente alla parte più violenta ed eversiva dei suoi sostenitori chiedendo loro di essere pronti. Cosa ha da dire un presidente in carica della prima potenza mondiale alle bande paramilitari che si preparano allo scontro armato contro gli avversari? Sta, per caso, evocando il fantasma di un’altra guerra civile dopo quella del 1861-1865? Pensa così di realizzare il suo slogan “make America great again”?
Un simile comportamento andrebbe catalogato come un caso di follia se non fosse che si tratta del presidente degli Usa e se non ci fossero molte analogie con altri leader della nuova destra populista che è emersa dalle crisi politiche ed economiche degli ultimi anni in vari paesi non soltanto occidentali.
In effetti c’è un filo che lega atteggiamenti, comportamenti e linguaggi di personaggi come Trump, Erdogan, Putin, Orban, Johnson, Bolsonaro e gli altri esponenti della nuova destra mondiale. Ognuno di loro ha manifestato tendenze dittatoriali, ognuno le ha sperimentate nei limiti del rispettivo contesto nazionale quando ha preso il potere, ognuno ha abbracciato il nazionalismo, di stampo religioso o laico, come strumento di chiusura del proprio popolo e come indispensabile modo di cattura del consenso. Per la maggior parte delle persone la diffidenza verso ciò che è fuori dalla propria comunità e la ricerca di protezione contro competitori ed avversari esterni è più forte di qualunque richiamo al realismo e alla ragione. “Prima noi” dicono tutti e così pensano di aver risolto il problema di capire il mondo nel quale viviamo. E quel “prima noi” è stata la chiave che ha aperto le porte agli aspiranti dittatori che hanno accusato la democrazia di debolezza, lentezza, pavidità.
Diciamo la verità: questo è il brodo di coltura di una prossima guerra mondiale. Non si può pensare di chiudersi nei confini e risolvere i propri problemi. Viviamo in un unico mondo che oggi è più interconnesso che mai. Questa consapevolezza non implica assolutamente il piegarsi ad ogni prepotenza o ad ogni spinta espansionista. Né implica la rinuncia ad agire per gestire fenomeni complessi come la globalizzazione delle produzioni e degli scambi e come le migrazioni. Purtroppo la destra nazionalista si è fatta forte degli errori compiuti da chi ha gestito male le aperture che hanno caratterizzato le politiche e le culture occidentali negli ultimi decenni. Molto idealismo, molti interessi in conflitto, poca concretezza.
Ciò che appare ridicolo, però, è che si faccia credere ad ogni popolo del quale si assume la rappresentanza che la soluzione è il nazionalismo. Un conto è che provi a farlo la prima potenza mondiale ed un altro che lo faccia un piccolo paese come l’Ungheria che sta in piedi solo perché inserito nello spazio economico europeo e grazie agli enormi finanziamenti ricevuti. Ma la destra estrema non se ne cura e agita questa bandiera innanzitutto per restringere gli spazi di libertà. Cambiano le nazioni e le culture, ma la direzione di marcia è quella. Esemplare il caso dei paesi del blocco di Visegrad. Usano senza remore due criteri: la dittatura della maggioranza all’interno e quella della minoranza all’esterno ovvero la pretesa di ricevere sempre più soldi dall’Unione e poi rifiutarsi di collaborare lealmente alle politiche comuni.
C’è un tratto che accomuna le destre e i leader del nuovo corso: la prepotenza dell’individualismo. Sono sempre all’attacco e non riconoscono nulla che possa limitare l’affermazione dei propri interessi. Trump ha un curriculum personale vergognoso, ma ha costruito il suo successo attraverso la tv spazzatura e ha chiesto il voto sulla base di slogan azzeccati che hanno intercettato l’insoddisfazione e le ansie di milioni di americani. Dovrebbero pesare su di lui il disastro della gestione del Covid e la scoperta di non aver pagato tasse per dieci anni e di essere pieno di debiti (nel Paese abituato ad esaminare ogni ombra nella vita dei presidenti o aspiranti tali), ma c’è da dubitare che il suo pubblico affamato di slogan e di rabbia lo giudichi per questo. È gente che pretende certezze e discorsi brevi. Soprattutto è gente che ammira l’uomo forte che inquadra le cose nello schema “ i miei interessi prima dei tuoi”.
In effetti il suo motto era “America first” e ogni elettore ha capito che lui sarebbe venuto prima di tutto il resto. Peccato che tutto il resto sia molto complicato e non si possa ridurre a slogan. Comunque nei suoi quattro anni ha fatto vedere di essere molto determinato e di non avere riguardi per nessuno. Ha fatto vedere, ma c’è da dubitare che i cambiamenti nella strategia Usa siano stati pensati da lui ed è molto probabile che proseguiranno anche con Biden.
Resta il problema delle nuove destre, delle loro velleità, dell’attrazione che esercitano sui popoli e resta il grande problema dei meccanismi automatici di azione e reazione che provocano le loro scelte politiche.
Il nazionalismo non porta bene e non sembra la scelta più intelligente mentre avanza un’altra grande potenza mondiale governata solo da una classe dirigente che si auto perpetua e che risponde solo a se stessa. La Cina sarà il problema del prossimo futuro e la chiusura nei confini nazionali tanto cara alle destre servirà a ben poco
Claudio Lombardi
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