Tutti invocano la partecipazione. Parliamone sul serio (di Luca Montuori)
Anni di vuoto lasciato da una politica priva di una cultura progettuale e dalla degenerazione dei partiti hanno fatto sentire la partecipazione come un’esigenza da cui non può prescindere qualunque disegno di cambiamento. In effetti il caos creativo che si è sviluppato negli ultimi anni ha portato a forme di partecipazione alternative rispetto alla politica tradizionale. All’interno di questa fase di rinnovato impegno politico, in sé positiva e decisamente interessante, i modi e gli obiettivi sono diversi e molto spesso si confonde la qualità del risultato con il processo attraverso cui il risultato viene ottenuto.
Il tema pone molti interrogativi sul modo in cui si sviluppa il processo democratico e sul ruolo della rappresentanza, ma la sostanza riguarda la capacità di governare e di concepire le soluzioni politiche ai problemi come risposte a bisogni ed esigenze dei cittadini.
Il principale laboratorio nel quale si sperimentano queste novità sono le città ed è interessante seguire le alterne fasi della partecipazione politica nell’ambiente urbano. A Roma, per esempio, ad una esplosione numerica dell’associazionismo e del movimentismo che ha portato alla proliferazione di sigle e di raggruppamenti di sigle sembra non aver corrisposto una adeguata capacità di portare queste esperienze nelle istituzioni locali. Infatti nell’elezione del sindaco, nonostante la grande spinta al cambiamento che sicuramente era presente tra i romani, sembra che la società civile organizzata non abbia influito né nel portare i cittadini al voto né nel portare nelle assemblee elettive propri rappresentanti.
È dunque forse il caso di riflettere su alcuni problemi che si nascondono dietro l’invocazione della partecipazione. Faccio solo qualche riflessione. Spesso è capitato che nel rapporto con il comune o con il municipio si parlasse con sicurezza di volontà popolare mentre quella che si era manifestata era solo la volontà dei gruppi di cittadini organizzati che avevano ricercato il rapporto con le istituzioni. Come è evidente le decisioni che riguardano il governo locale sono le più difficili perché impattano sulla vita quotidiana delle persone e bisogna stare attenti a non scambiare punti di vista specifici per reali processi di partecipazione dei cittadini alla vita della città. Ovviamente gestire un processo di partecipazione è compito difficile quindi l’atteggiamento migliore è quello dello sperimentalismo democratico nel quale si considera sempre aperto il processo e sempre parziale il risultato in modo che nessuno possa godere di una posizione privilegiata di interlocutore dell’amministrazione locale.
Il primo ad aver fatto della partecipazione uno strumento di metodo progettuale è stato Giancarlo De Carlo, architetto che ha realizzato molti importanti progetti e piani urbanistici (il più famoso è quello per la città di Urbino, raro esempio in cui moderno e antico convivono armoniosamente). Riguardo alle sue esperienze De Carlo affermava:
“Dunque io credo che non serve una teoria della partecipazione mentre invece occorre l’energia creativa necessaria a uscire dalle viscosità dell’autonomia e a confrontarsi con gli interlocutori reali che si vorrebbero indurre a partecipare. In Italia l’opposizione alla partecipazione è stata indubbiamente dura, ma questo è stato anche facilitato dalle posizioni deboli e dogmatiche di quelli che proponevano la partecipazione come processo meccanico e automatico secondo il quale basta andare dalla gente, chiederle quali sono i suoi bisogni e poi trascrivere le risposte in progetti grigi il più possibile. La partecipazione è molto più di così: si chiede, si dialoga, ma si “legge” anche quello che la vita quotidiana e il tempo hanno trascritto nello spazio fisico della città e del territorio, si “progetta in modo tentativo” per svelare le situazioni e aprire nuove vie alla loro trasformazione. Ogni vera storia di partecipazione è di un processo di grande impegno e fatica, sempre diverso e il più delle volte lungo e eventualmente senza fine. La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste”.
(il testo completo è su: http://dau049.poliba.it/admin/doxer/doc/67_1164452296.pdf)
Dunque dialogo, capacità di comprendere i bisogni di chi abita nei luoghi e capacità di tradurli in un progetto che sia capace di rispondere ai bisogni di oggi e di prevedere diverse e possibili soluzioni nel futuro. Dialogo necessario per far sentire ai cittadini (tutti, non solo quelli organizzati in associazioni) la responsabilità della cura e dell’attenzione per gli spazi. Fin dalla fase progettuale si stabilisce, con il dialogo, un nuovo sistema di relazioni tra i soggetti coinvolti che permette di pensare allo spazio urbano come a un bene realmente condiviso, la cui cura non può e non deve essere completamente delegata dai cittadini “consumatori” passivi del territorio.
Per esempio in molti paesi europei i parchi vengono gestiti in accordo con le comunità locali che partecipano alla definizione del quadro delle esigenze da soddisfare con la trasformazione e poi usano parti dei parchi stessi per le loro attività curandone anche gestione e manutenzione.
C’è poi la capacità dei progettisti di spiegare le ragioni delle trasformazioni ai cittadini e dei cittadini di ascoltare le ragioni di chi ha la capacità tecnica (e culturale aggiungerei) di sviluppare un progetto per la città. Infine c’è la capacità degli amministratori di assumersi le proprie responsabilità. Si tratta di un discorso valido ad ogni livello, locale e nazionale.
Insomma un processo di partecipazione è complesso ed è ostacolato se qualcuno assume di essere la voce della volontà popolare che va imposta come una legge.
È evidente che questo discorso è valido anche quando qualche forza politica pretende di parlare a nome del popolo contrapponendosi a tutti gli altri. Senza tirare in ballo il Movimento 5 Stelle di cui si parla troppo bisogna pensare in grande alla partecipazione come una relazione che riguarda innanzitutto i cittadini e le istituzioni (o le amministrazioni pubbliche). Se la si considera come una riserva per gruppi politici organizzati, associazioni e movimenti si rischia molto facilmente di creare rendite di posizione e collusioni per chi magari ci fonda la sua carriera personale o politica.
È auspicabile, quindi, che della partecipazione a Roma e su scala nazionale si cominci a parlare fuori dalle cerchie degli esperti e dal giro dei convegni.
Luca Montuori
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