Ucraina: la pace arriva con la sconfitta russa
Pubblichiamo un articolo di Nane Cantatore tratto dalla sua bacheca facebook (leggibile anche su Linkiesta al seguente link).
Noi dobbiamo sostenere l’Ucraina affinché il Cremlino perda sul campo, perché solo un’inequivocabile sconfitta militare russa è una garanzia di pace giusta.
Forse la più celebre affermazione di von Clausewitz è quella secondo cui la guerra sarebbe la prosecuzione della politica con altri mezzi; il nostro si è spinto anche oltre questo rilievo, fino a definire la guerra come atto politico tout court. Atto politico, perché tutto dipende dalla politica: gli obiettivi, le risorse disponibili, le stesse modalità di condotta. Per esempio, non si può rendere conto della differenza tra la brutalità criminale con cui agiscono i russi e il sostanziale rispetto delle regole da parte degli ucraini, se non a partire dalle differenze politiche tra le due parti, che comprendono anche i soggetti cui rendere conto (per i russi è sostanzialmente indifferente essere scoperti a commettere atrocità, per gli ucraini potrebbe avere conseguenze devastanti sulla capacità di mantenere il sostegno occidentale).
Atto politico, soprattutto perché ogni guerra inizia per volontà politica; anche quando le ostilità vengono avviate per ragioni di necessità militare, come per esempio nel caso della Guerra dei Sei Giorni, questa necessità nasce da un contesto politico, di cui le azioni militari sono soltanto conseguenza. Ma il vero punto in cui si afferma il primato della politica è la fine del conflitto, con l’armistizio e infine la pace. Infatti, per cominciare una guerra basta un singolo attore: l’aggressore, che avvia le ostilità; per finirla, invece, serve che entrambi i contendenti decidano di averne abbastanza. Una decisione che, nel suo elemento razionale (che c’è sempre ma non è quasi mai il solo e a volte nemmeno quello preponderante), produce un calcolo: quello da cui risulta che, proseguendo lo scontro, si rischiano conseguenze peggiori di quelle imposte dalla pace.
Conseguenze che sono senz’altro sul piano militare, ma spesso anche su quello politico. Una guerra persa implica sempre una perdita di prestigio, spesso il pagamento dei danni di guerra, a volte perdite territoriali o persino di autonomia politica. Pertanto, la possibilità della pace dipende dal confronto tra due grandezze, che possono entrambe variare moltissimo: i danni subiti dalla guerra e le concessioni da fare per ottenere la pace. Di conseguenza, maggiore è il costo della pace, maggiore è il prezzo che si è disposti a pagare per evitare la sconfitta e lo sforzo che si può sopportare per vincere la guerra.
Per fare due esempi, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) nella Seconda Guerra Mondiale si trovava di fronte a una minaccia esistenziale, con un nemico capace di atrocità spaventose ed esplicitamente intenzionato a instaurare un regime di schiavitù su base razziale: non c’è da stupirsi che abbia potuto subire perdite colossali, pur di sconfiggere la minaccia nazista. Dall’altra parte, l’Argentina nella guerra delle Falkland/Malvinas aveva ben poco da perdere, salvo la rinuncia al suo progetto di aggressione sciovinista: era chiaro che il Regno Unito non avrebbe mai potuto minacciare il territorio o la popolazione argentina e lo stesso regime militare era fin troppo scricchiolante per continuare ostilità per le quali aveva sostanzialmente perso tutti i mezzi più efficaci.
La guerra di aggressione russa all’Ucraina è, anche in questo senso, paradigmatica. Per l’Ucraina, la sconfitta implicherebbe di fatto almeno l’instaurazione di un protettorato russo simile a quello sulla Bielorussia, la perdita definitiva della Crimea e forse di altre regioni, la rinuncia a qualsiasi prospettiva di autonomia e, soprattutto, la definitiva consegna delle loro istituzioni politiche e della loro economia agli ukase moscoviti. Non c’è da stupirsi che un paese, che ha fatto da anni una scelta radicalmente opposta ed era finalmente riuscito a prendere la propria strada, abbia deciso di affrontare una guerra così devastante pur di non capitolare di fronte all’aggressione.
Per la Russia, la pace significherebbe “soltanto” rinunciare al proprio progetto imperialista, verso l’Ucraina e probabilmente anche altrove, dato che la perdita di prestigio e credibilità sarebbe tale da mettere in crisi il suo ruolo di grande potenza. Si tratta, comunque, di un danno già avvenuto: in una regione strategicamente ben più rilevante come l’Asia centrale, ormai il ruolo di Mosca è stato quasi completamente sostituito da Pechino, mentre le repubbliche autoritarie di quei paesi cercano in Europa e negli Stati Uniti partner di sviluppo e, forse, possibili alleati cui affidarsi per non venire completamente fagocitati dalla Cina.
Nel Caucaso la situazione è ancora più netta, con l’Azerbaijan che sta capitalizzando la sua scelta filo-occidentale, l’Armenia nell’angolo che ha sostanzialmente abbandonato l’alleanza con la Russia e la Georgia nel caos, visto che il governo filorusso è sempre più osteggiato dalla popolazione. Ancora peggio va, per la Russia, su altri aspetti chiave. Sul piano economico, gli introiti da combustibili fossili sono crollati, il sistema finanziario e i conti pubblici sono in crisi e la fragilità dell’industria è stata resa evidente dalle sanzioni, mentre la capacità di esportare armamenti, unica voce dell’export con un significativo valore aggiunto, è fortemente minata dalla loro performance non esaltante sul fronte ucraino.
Dal canto suo, l’Ucraina deve fare i conti con un paese devastato, le enormi sofferenze inflitte a tutta la popolazione e le grandi perdite umane, civili e militari, del conflitto. Però lo status internazionale del paese si è estremamente rafforzato: da nazione ai margini dell’Europa orientale di scarso interesse, povera e arretrata, è diventata il centro delle relazioni internazionali, ammirata ovunque per le sue qualità di tenacia, inventiva e innovazione. L’Ucraina sa che, in caso di vittoria, avrà ampie garanzie di sicurezza, forze armate di prim’ordine e un piano di ricostruzione che potrà far balzare in avanti le sue capacità economiche e tutto il tessuto sociale. A queste condizioni, dovrebbe essere chiaro un aspetto centrale: l’Ucraina è razionalmente motivata a investire tutte le sue risorse per la vittoria, mentre la Russia ha già da un pezzo superato il punto in cui i costi della prosecuzione della guerra sono superiori a quanto potrebbe ottenere da una vittoria.
Aggiungiamo un elemento tutt’altro che secondario: nessuna guerra avviene nel vuoto e questa ancor meno delle altre. Il sostegno internazionale all’Ucraina garantisce un afflusso di materiali ed equipaggiamenti ampiamente superiore a quello che ricevono le truppe russe, in termini qualitativi e ormai persino quantitativi. Un sostegno destinato a durare, non solo per gli impegni ormai molto chiari presi da diversi paesi (Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Polonia, nordici e baltici, solo per citare i più decisi), ma anche per ragioni che vanno persino al di là della politica. Infatti, le industrie della difesa stanno ormai completando l’espansione delle capacità produttive necessaria ad alimentare questo conflitto e lo hanno fatto sulla base di contratti pluriennali, visto che non sono certo enti di beneficienza. Insomma, detta cinicamente, la macchina si è messa in moto e il resto segue.
Con queste premesse, dovrebbe essere chiaro che, almeno a partire dalla fine dell’estate scorsa, con il fallimento del tentativo di conquistare il Donbass, per la Russia la scelta razionale sarebbe quella di chiudere la guerra il prima possibile, per cercare di normalizzare le sue relazioni internazionali e limitare i danni. Da allora, con le controffensive ucraine tra settembre e novembre, il sostanziale fallimento dell’offensiva russa di inizio anno e l’attuale controffensiva ucraina in corso, la posizione russa è ancora peggiorata. Oggi, un successo dell’offensiva ucraina potrebbe rendere la situazione militare precaria, se non del tutto insostenibile, per le armi russe; anche un suo fallimento non produrrebbe altro che uno stallo, con gli ucraini comunque intenzionati a riprovarci, con un margine di superiorità maggiore dovuto ai nuovi aiuti occidentali, ormai certi.
Il problema è che, se alla Russia come nazione conviene chiuderla qui, una sconfitta sarebbe esiziale per il regime. Proprio come i generali argentini al tempo delle Falkland, Putin sa che il suo potere non reggerebbe e rischierebbe davvero di fare la fine di Milosevic, insieme a molti dei suoi scherani. Il regime di Mosca, a differenza di quello di Buenos Aires, sembra saldamente installato al potere: non c’è una vera opposizione, la società civile nemmeno si sogna di protestare per i diritti umani, non si è (ancora) verificata una drammatica crisi economica come quella argentina (ricordiamola: inflazione del 130%, salari bloccati, crollo del PIL e degli investimenti, debito insostenibile).
Ci sono forti crepe, certo. Ormai il livello di tensione tra i vertici della difesa e la Wagner è sulla soglia dello scontro armato (e anzi l’ha già superato in diverse occasioni), la disponibilità di spesa pubblica per mantenere il consenso è agli sgoccioli, il settore finanziario è tenuto in vita artificialmente, le critiche e le polemiche tra i diversi gruppi al potere sono all’ordine del giorno, ma è probabile che tutto questo non sia ancora sufficiente per provocare una crisi tale da rendere insostenibile la divergenza tra gli interessi del regime e quelli del paese.
Il punto di rottura potrebbe venire proprio dal campo: le forze armate sono un pilastro del regime russo, come di ogni altro regime. Una sconfitta inequivocabile avvicinerebbe di molto la fine della guerra, non solo per le evidenti implicazioni sugli equilibri militari, ma forse ancor più perché metterebbe il regime di fronte alla sua inadeguatezza e potrebbe spingere almeno parte delle unità russe a rifiutarsi di combattere una guerra persa. Non sarebbe la prima volta che una sconfitta militare provoca la caduta di una dittatura; la storia russa, anzi, è costellata di eventi del genere.
Proprio per questo motivo è opportuno sostenere ancor più la causa ucraina, anche rafforzando gli aiuti militari come prevede l’appello di Valerio Federico firmato, non a caso, da molti autorevoli analisti, giornalisti, politici. Di fronte a un nemico che preferisce mandare in rovina il proprio paese pur di restare al comando, bisogna renderne inequivocabile la sconfitta militare. Contribuire alla vittoria ucraina è la via migliore per una pace giusta e duratura; forse, è anche il modo migliore per salvare la Russia dal disastro a cui la sta portando il delirio autoritario e imperialista della giunta al comando.
L’Italia può, deve fare molto di più: non siamo certo tra i paesi più impegnati e, anzi, le nostre posizioni sono caratterizzate da un’incomprensibile timidezza dei toni, tanto che mostriamo persino meno di quanto si faccia. Uscire da questa posizione e assumersi con chiarezza e anche il giusto orgoglio la responsabilità di un sostegno deciso non è solo un dovere morale e una scelta politica giusta, ma è anche un’opportunità fondamentale per contare sulla scena internazionale.
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