Ucraina: la rivoluzione di Maidan (parte 2)

Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it

Nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013 alcune centinaia di studenti e attivisti si riuniscono a Maidan, la piazza dell’Indipendenza, per protestare contro la sospensione delle trattative con l’UE. Nemmeno dieci giorni dopo, in seguito al primo intervento violento contro i manifestanti della polizia antisommossa Berkut, a Kyiv marcerà una cifra compresa tra il mezzo milione e il milione di cittadini. Cominceranno presto a scendere in piazza i residenti di altre città ucraine, comprese quelli delle regioni orientali e meridionali, seppur lontani dalla magnitudo kyivana.

È l’inizio della terza rivoluzione in un quarto di secolo, dopo quella di Granito (1990) e quella Arancione (2004). Le proteste sono di per sé inusuali: un raro caso di malcontento popolare derivante da decisioni di politica estera. La miccia che le farà incendiare, però, sarà l’ottusa repressione del regime di Janukovyč.

Putin, nel frattempo, non ha ancora manifestato i suoi piani bellicisti in Ucraina, e lo scenario georgiano del 2008 è percepito come altamente improbabile, seppur molti ucraini non vorrebbero irritare i russi proprio per questi timori.

Nel 2013, Putin sa ancora giocare, abilmente, con il soft power. Promette un transito preferenziale e scontato del gas, priorità per una parte della classe media e per i pensionati. In cambio del rifiuto all’UE, il premio russo sarà una tranche da 15 miliardi di dollari in prestiti, a condizioni vantaggiose. Il 47% degli ucraini vede di buon occhio questi aiuti.

Secondo i sondaggi delle stesse settimane, però, il 58% degli ucraini è pure favorevole all’UE (nel 2022 diventeranno il 91%). Altri campioni statistici segnalano una spaccatura: sentimenti anti-UE sono fortemente presenti nel Donbass, a Odessa, Kharkiv e soprattutto in Crimea.

Quando i russi scateneranno l’invasione militare mascherata da aiuto ai separatisti del Donbass, gli abitanti della regione mineraria si divideranno tendenzialmente in tre parti quasi eguali tra chi è a favore dell’UE, di una cooperazione con la Russia, e fra chi non vuole nessuna delle due. Sarà però troppo tardi, poiché dalla seconda metà del 2014 le alleanze geopolitiche si scopriranno essere solamente una punta dell’iceberg della guerra russo-ucraina, che impedisce così qualunque possibile risoluzione interna della crisi.

Chi è Viktor Janukovyč, l’ex presidente ucraino fuggito dopo Maidan?

Viktor Janukovyč è un politico ucraino (naturalizzato russo) cresciuto in una famiglia di origine russa nella periferia di Donec’k. (….)

Janukovyč e il Partito delle Regioni si collocano come la voce dell’identità mineraria e diffidente del Donbass nel centro del potere a Kyiv, cooptando quella che l’autorevole storico nipponico Hiroaki Kuromiya definiva come un’identità economico-territoriale, sin dal periodo sovietico, diffidente sia verso Mosca che verso Kyiv.

Una diffidenza dovuta sia al suo passato (i poli industriali del Donbass erano sorti alla fine dell’Ottocento quasi dal nulla, conoscendo poi la guerra civile, il banditismo e la repressione staliniana) che a un presente auto-percepito di “cuore industriale del paese” non sufficientemente remunerato dal governo centrale, una narrazione simile all’indipendentismo padano (e presente, peraltro, in contesti europei eterogenei, la cui differenza sostanziale è l’assenza di una grande potenza pronta ad approfittarne).

Ai comunisti veniva invece lasciata, in via residuale, l’appropriazione elettorale dei sentimenti nostalgici di una classe pensionata post-operaia, ritrovatasi impoverita e confusa nel passaggio da socialismo reale a economia di mercato durante i Selvaggi anni Novanta ucraino-russi.

Una rappresentanza – quella regionalista-comunista – in realtà puramente di facciata, un contenitore vuoto divenuto un ascensore sociale per una classe politica locale corrotta e legata ai movimenti criminali dell’area, ma che tuttavia era riuscita a plasmare le preferenze politiche e identitarie della popolazione.

Alla vigilia di Maidan, il Partito delle Regioni del presidente è uno strumento dell’élite politico-economica del clan del Donbass: gli oligarchi Rinat Achmetov e Dmytro Firtaš ne sono i principali finanziatori. Le politiche di Janukovyč sono tese a preservare e aumentare l’influenza degli oligarchi sulla fragile democrazia ucraina, mentre il premio è l’arricchimento del suo clan familiare più stretto.

Il figlio di Janukovyč, conosciuto come Sasha il Dentista, arriva a possedere un patrimonio di oltre mezzo miliardo di dollari. La presidenza di Janukovyč è oggi ricordata come il periodo della Restaurazione, un consolidamento autoritario rispetto al mandato di Viktor Juščenko (2005-2010).

La possibilità di un mandato di Janukovyč era uno scenario impensabile nel 2004. L’ex governatore dell’oblast di Donec’k aveva tentato di manipolare il voto popolare al secondo turno delle presidenziali, annullato dalla Corte Suprema per i numerosi e provati brogli. Janukovyč e il sistema di potere del suo partito oligarchico sono i bersagli della Rivoluzione Arancione. Un mese dopo, perderà nettamente la ripetizione del ballottaggio contro il candidato filoccidentale Juščenko.

Il ritorno di Janukovyč, nel 2010, è merito del forte bacino elettorale, anche di tipo clientelare, costruito in Crimea e nel Sud-Est. Qui gli oligarchi dell’industria pesante e i rappresentanti della burocrazia post-comunista hanno rapporti neofeudali con il ceto operaio locale. Una relazione privilegiata, quella fra partiti vicini alla Russia, Est ucraino e cardinali grigi del Donbass che si manterrà anche dopo il 2014, quando il Partito delle Regioni verrà bandito dopo i crimini commessi a Maidan, ma sarà presto sostituito dai due partiti gemelli – Blocchi di Opposizione – di Jurij Bojko e Viktor Medvedčuk. In sostanza, si tratterà di una continuazione del Partito delle Regioni.

Finalmente presidente, nei primi anni ‘10 Janukovyč incomincia un processo di accentramento di potere, ribaltando le modifiche alla Costituzione che avevano creato un sistema di pesi e contrappesi fra presidenza e premierato (di cui pure aveva beneficiato nel 2006, mutilando i programmi rivoluzionari del rivale Juščenko).

L’indipendenza del sistema giudiziario, inoltre, era sempre più una chimera. Ciò fu chiaro con l’arresto-farsa di Julija Tymošenko, l’altro volto della Rivoluzione Arancione, contro la quale aveva vinto il ballottaggio presidenziale nel 2010.

Molte narrazioni semplicistiche della società e politica ucraina hanno cercato di presentare la segmentazione elettorale fra Est e Ovest come una spaccatura insanabile fra gli ucraini. Le motivazioni di questa polarizzazione erano ben più complesse dell’asse filoccidentali vs filorussi.

Tuttavia, il proseguimento delle trattative (iniziate con Juščenko) tra Janukovyč e Unione Europea aveva contribuito a diminuire la polarizzazione tra presunti filoeuropeisti e presunti filorussi, generando la percezione di una presunta stabilità statale, condizionata pure dal clima di festa di Euro 2012. L’economia ucraina cresceva, nonostante l’alto livello di corruzione. La cessazione della leva obbligatoria per i ventenni, nell’estate di quell’anno, sembrava un segnale di modernità e progresso. Nella primavera del 2014, questa decisione si rivelerà fatale – e sarà facile capire i motivi per cui in pochi anni venne smantellato l’esercito, una mossa del tutto inusuale per un paese dell’ex Urss – quando i russi invaderanno la Crimea e provocheranno insurrezioni telecomandate in Donbass (e altre città ucraine).

In ogni caso, il programma di Janukovyč fino a Maidan non è di certo pro-russo. Non richiama in forma aperta un avvicinamento fra i due Stati. In politica estera, il suo governo punta a intrattenere rapporti amicali con la Russia ma continuando la cooperazione con l’Europa, perseguendo cioè una sorta di neutralità strategica.

È un percorso, peraltro, condiviso all’epoca dalla maggioranza degli ucraini, che sono favorevoli alla UE ma tendenzialmente contrari all’adesione alla NATO. D’altronde, in linea teorica, i garanti della sicurezza e sovranità statale dell’Ucraina erano Russia, Gran Bretagna, USA e Francia, secondo il memorandum firmato a Budapest nel 1994, con cui il paese post-sovietico cedeva le sue testate nucleari a Mosca.

Il governo ucraino prova a fornire motivazioni politico-economiche per la rinuncia all’integrazione con l’UE. I timori del primo ministro Mykola Azarov sono un calo dei rapporti commerciali con i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti, su tutti con la Russia. L’esecutivo ucraino punta il dito pure contro la condizionalità imposta dal Fondo Monetario Internazionale per accedere ai prestiti che tamponerebbero le perdite negli scambi industriali con i paesi post-sovietici durante il cammino di integrazione nel mercato europeo.

(continua)

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