Ucraina: la rivoluzione di Maidan (parte 4)

Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it

(Le tre parti precedenti si trovano qui , qui e qui)

Il governo di transizione post-Maidan e l’inizio della “primavera russa”

In Ucraina, intanto, si instaura un governo di transizione, il cui insediamento è promosso dal presidente ad interim Oleksandr Turčynov, un politico fino ad allora anonimo, e che tale rimarrà in seguito. Nel governo, guidato da Arsenij Jacenjuk, troveranno spazio, tra gli altri, pure i nazionalisti di Svoboda.

Si tratta, tuttavia, a tutti gli effetti di un governo di coalizione nazionale, da cui vengono però esclusi il Partito delle Regioni e gli alleati comunisti – sono quest’ultimi a passare volontariamente (il primo ministro filorusso Mykola Azarov si era già dimesso dalla carica il 28 gennaio, fuggendo in Austria) all’opposizione, rendendo necessaria la formazione di un nuovo esecutivo. Lo fanno dopo aver perso la maggioranza parlamentare: in seguito agli eventi di Maidan, sono almeno 70 i deputati a lasciare il Partito delle Regioni, molti altri scappano in Russia.

Nel 2014 l’Ucraina e lo spazio post-sovietico interessano a pochi, e a livello mediatico la propaganda russa non incontra molti ostacoli nell’incentivare la narrazione del golpe nazifascista di Kyiv e della mano invisibile statunitense, giocando sulle parole intercettate – “Fuck the EU” – pronunciate dalla segretaria di Stato americana, Victoria Nuland, in una conversazione telefonica con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, Geoffrey Pyatt, riferendosi all’operato dell’Alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, i cui tentennamenti verso Yanukovich rappresentavano, secondo Nuland, quelli dell’Ue contro l’aggressività crescente di Mosca.

Sarà presto una serie di fraintendimenti e polarizzazioni pregresse su questioni culturali, identitarie e linguistiche a rendere credibile, nell’alveo della disinformazione sistemica promossa dal Cremlino, alcuni miti assemblati a tavolino dalla Russia, come la repressione della popolazione russofona (casus belli già usato in Georgia nel 2008) e la definizione di qualsiasi forza di governo a Kyiv come nazista.

Una serie di accuse, portate avanti dalla Russia sin dalle proteste di Maidan in modo incessante, funzionale a far accendere in modo artificiale, attraverso la strumentalizzazione delle televisioni russe ancora attive in Ucraina, focolai deflagrati in diverse città dell’area sud-orientale, nella speranza di quella che i nazionalisti russi definirono la “primavera russa” nelle zone dell’ex dominio zarista della Novorossija.

Le proteste di AntiMaidan e le accuse di colpo di Stato filo-occidentale

In alcune città orientali, contemporaneamente alla rivoluzione di piazza di Kyiv, sorgono proteste denominate simbolicamente AntiMaidan. Non coinvolgono quasi mai più di qualche migliaio di persone, a Donec’k, Luhans’k, Mariupol, Kharkiv e Odessa. Quando sono più, come i 10.000 di Kyiv o i 40,000 di Kharkiv a novembre, numerosi giornalisti ucraini e stranieri testimoniano come i manifestanti pro-governativi siano a libro paga del Partito delle Regioni (per poche centinaia di gryvne al giorno). Alcuni manifestanti si lamenteranno di non essere stati nemmeno indennizzati, nonostante le promesse.

A manifestare contro il presunto colpo di Stato (e fino al febbraio 2014, semplicemente contro i manifestanti di Maidan definiti come burattini occidentali) sono spesso pensionati, insieme a dipendenti statali e lavoratori nelle grandi aziende degli oligarchi filo-regime. Vengono caricati sui bus, persino su treni privati, e portati a manifestare in diverse metropoli ucraine.

A Kyiv, Kharkiv, Dnipro sono incaricati di sventolare bandiere anti-UE e vari striscioni anti-occidentali,  anche a sfondo omofobico. Non è una pratica nuova; veniva usata già nell’Urss per riempire i vari raduni del partito comunista, per evidenziare la fedeltà al regime della base popolare. Alcuni oligarchi dell’Est, lo stesso Achmetov, presidente dello Shakhtar Donec’k, usavano queste catene logistiche per riempire gli stadi di calcio delle squadre di cui erano proprietari.

Ovviamente, un nucleo di persone che si oppone alla rivoluzione di Maidan esiste, e si radicalizza sotto la martellante propaganda dei canali filogovernativi e di quelli statali russi, i più visti nelle televisioni dell’Est. Tuttavia, Janukovyč e Putin faranno di tutto per dipingere AntiMaidan come l’altro lato della medaglia di una profonda frattura civile e sociale in seno all’Ucraina. Una narrazione mistificatoria, persino in un paese di profonde differenze regionali come l’Ucraina, che però contribuirà a esacerbare i toni fra le diverse anime del paese.

I sostenitori di Maidan accusano i sostenitori di Janukovyč di essere dei dinosauri nostalgici dell’Unione Sovietica, mentre i controrivoluzionari accusano gli avversari politici di voler svendere il paese ad europei e americani. A Dnipropetrovsk, chiedono l’imposizione del coprifuoco e la cacciata degli stranieri dall’Ucraina. In Crimea, i manifestanti dell’Anti-Maidan sono convinti che siano i giornalisti a uccidere i protestanti di Kyiv. (…)

Secondo alcuni report fu la Russia, in modo diretto oppure tramite i propri delfini in Ucraina, a finanziare e provocare gli scontri successivi a Maidan nelle città meridionali e orientali del paese. Il Guardian riportò come il Cremlino persino a Mosca abbia pagato i propri cittadini per ingigantire le manifestazioni contro “i fascisti di Euromaidan” e di supporto alla “popolazione russofona del Donbass”.

Durante l’inverno 2014, a Donec’k, a manifestare è per lo più qualche centinaio di persone, fra pensionati ed elettori del Partito Comunista, come racconta un reportage della BBC. Aumenteranno solo con la mobilitazione di marzo, alimentata dai mezzi del Cremlino. Il pretesto è la lotta contro il nazifascimo, dopo un attacco al leader comunista Symonenko, uno stalinista nel paese dell’Holodomor, la cui casa viene incendiata da alcuni estremisti a fine febbraio.

In questo clima, alcune migliaia di comunisti e regionali scendono in piazza con bandiere russe, chiedendo l’intervento di Mosca. Provano a farlo in tutte le città (occupandone le amministrazioni regionali e comunali) del Sud-Est: Zaporizja, Kharkiv, Odessa, Kherson, Mykolaiv, Dnipro, Donec’k e Luhansk. Solamente nelle ultime due città del Donbass le istanze secessioniste acquisiranno una parvenza di credibilità, mentre a Kharkiv e Odessa il caos viene sventato all’ultimo momento: in queste, il consenso al separatismo è irrisorio, e il confine russo è più lontano.

La natura eterodiretta di questi processi trapelerà dai Surkov Leaks, i documenti segreti e raccolte di posta elettronica del funzionario russo Vladislav Surkov, in cui sono svelati i metodi con i quali i politici filorussi in Ucraina stavano spianando il terreno per un’invasione ibrida russa già nel 2014, alimentando le divisioni e la violenza fra opposte fazioni politiche: la cosiddetta operazione Nuova Russia (Novorossija).

(continua)

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