Ucraina: l’invasione della Crimea e la guerra in Donbass (1)

Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it. Prima parte.

Nella prima parte di questo approfondimento (suddivisa in più articoli quiquiqui, qui e qui ), si è ripercorsa la caotica successione di eventi prodotti dalla Rivoluzione di Euromaidan del 2013-2014, apripista di una radicale polarizzazione in seno ad alcune fasce della società ucraina, ma soprattutto di un’ingerenza russa sempre più violenta e cinicamente intenzionata a sfruttare l’instabilità dell’Ucraina, quest’ultima incendiata dai russi in modo artificioso, in funzione dei propri vantaggi e obiettivi geopolitici. Nella seconda parte, sarà analizzata nel dettaglio l’occupazione russa della Crimea e l’ingerenza ibrida in Donbass, esaminando pure come cambia l’Ucraina nel passaggio di consegne fra Porošenko e Zelensky nel 2019. Anche questa parte sarà suddivisa in più articoli e saranno affrontati i seguenti punti:

  • L’annessione illegittima russa della Crimea
  • Il ruolo dei mercenari russi e dell’esercito regolare
  • Nel Donbass si è combattuta una guerra civile fra ucraini?
  • Il ruolo dei battaglioni volontari nei crimini di guerra e l’estrema destra in Ucraina
  • Il genocidio (mai esistito) dei russofoni del Donbass: da dove nasce il mito russo?
  • Una pace fra Ucraina e Repubbliche separatiste era possibile?
  • Come si vive nei territori occupati, fino al 2022?
  • “Esercito, lingua, fede”: Il populismo antirusso di Porošenko, il predecessore di Zelensky
  • Da Porošenko a Zelensky: cosa è cambiato?
  • L’annessione illegittima russa della Crimea

La Crimea era senza dubbio in cima alle priorità strategiche dell’operazione russa in Ucraina, in quanto sede della flotta russa nel Mar Nero. (….) che portarono ad un accordo di concessione rinnovato poi da Janukovyč, nel 2010, per ulteriori trentadue anni, a condizioni molto favorevoli per Mosca. I cosiddetti patti di Kharkiv  determinarono pure una massiccia infiltrazione di agenti di sicurezza russi nell’intelligence ucraina e nel suo sistema politico-istituzionale.

Il giorno successivo alla fuga di Janukovyč, circa ventimila uomini in assetto militare privi di patch identificative (al di là del nastrino nero e arancione della “croce di san Giorgio”, la più alta onorificenza nell’impero zarista e simbolo del nazionalismo russo) occupano i centri nevralgici della penisola, fra cui l’assemblea regionale a Simferopoli. Sopra di essa viene issata la bandiera russa e imposto un nuovo primo ministro, Sergei Aksyonov, un esponente di Russia Unita, che subito chiede l’intervento di Mosca.

Putin aveva fino ad allora descritto la rivolta come una genuina espressione della volontà dei cittadini crimeani contro il “colpo di Stato” in atto a Kyiv, ma già un mese dopo ammette la verità, innegabile sin dal principio. La rapidità dell’occupazione russa in Crimea, poche ore dopo la fine della Rivoluzione della Dignità – più nota come Euromaidan – nella capitale ucraina, dimostrava un piano d’azione preparato da diverso tempo. Di fatto non ci furono scontri: come ammesso dal ministro della difesa ucraino Ihor Tenyukh, i soldati ucraini pronti a combattere erano appena seimila, e alcuni, in Crimea, si uniranno all’esercito russo (per poi pentirsene dopo l’invasione su larga scala).

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La Crimea, una regione autonoma all’interno dello Stato ucraino, era l’unico oblast’ con una maggioranza di etnia russa (circa il 58% secondo il censimento del 2001) e assiste infatti in modo relativamente pacifico alla comparsa degli “omini verdi” di Mosca, che in poche settimane determinano l’annessione russa tramite un referendum farsa: Putin scelse come primo bersaglio quello meno rischioso.

A protestare contro l’annessione del 2014 furono soprattutto, anche con manifestazioni di massa prima dell’annessione, i tatari di Crimea (circa il 12% della popolazione, mentre quella ucraina si attestava al 25%), e decine di migliaia fra essi ancora una volta nella propria storia (prima da Caterina II e poi da Stalin vennero deportati in massa) lasceranno, forzatamente, la propria terra di origine.

Quel che rimane certo, è come il referendum, caratterizzato dalla surreale presenza dei militari durante i concitati giorni delle votazioni, non avrebbe mai raggiunto le improbabili percentuali plebiscitarie rilasciate dal Cremlino (quasi il 96% a favore dell’annessione), qualora si fosse svolto in presenza di osservatori internazionali indipendenti. Le Nazioni Unite hanno dichiarato il referendum “invalido”.

In ogni caso, la rapida annessione della Crimea lascia intendere i piani russi sull’Ucraina. Essi non sono subordinati nemmeno al diritto internazionale, mentre il metodo è una costante maskirovka: la negazione dell’evidenza da parte delle autorità russe, pronte ad ammettere il fatto compiuto solo in un secondo momento. In Donbass la guerra ibrida russa, in cui il fronte informativo gioca un ruolo di primo piano, andrà avanti per otto anni.

Come è scoppiata la guerra in Donbass?

A Donec’k e Luhans’k lo scenario, rispetto alla Crimea, è completamente differente. Gli assalti alle amministrazioni regionali fanno parte di un piano russo ben più elaborato, in cui saranno coinvolti diversi mercenari in una prima fase, e alcune unità “invisibili” dell’esercito russo in quelle successive. L’ex consigliere di Putin, Andrei Illarionov, stimava come circa 2.000 ufficiali d’intelligence del FSB russo fossero già presenti in Ucraina ad inizio aprile.

Dopo un primo tentativo di prendere l’amministrazione regionale a marzo, i manifestanti separatisti riescono a occupare la sede dell’oblast’ di Donec’k il 6 aprile. Le unità speciali inviate da Kyiv rifiutano di caricare l’edificio, e ciò, unito alla complicità della polizia locale, sarà decisivo nella presa di potere separatista. Una folla di circa mille persone occupa il palazzo, alzando la bandiera russa. Il giorno successivo viene proclamata la Repubblica popolare di Donec’k.(…)

Le contro-proteste dei giorni successivi a favore dell’unità ucraina – condotte soprattutto dalle generazioni più giovani – non riusciranno a coordinare un messaggio altrettanto convincente per incanalare il malcontento, in ogni caso presente in Donbass seppur non condiviso in nette istanze separatiste.

Durante lo stesso giorno, a Luhans’k, un altro migliaio di manifestanti armati, autoidentificatosi come “Armata del Sud-Est”, carica la sede dei servizi segreti ucraini (SBU). I separatisti prendono possesso dell’edificio, e di centinaia di armi custodite al suo interno. Qualche giorno dopo viene proclamata la Repubblica popolare di Luhans’k.

Anche a Kharkiv si tenta l’assalto agli edifici governativi, e pure qui, inizialmente, l’amministrazione regionale cade. Anche a Kharkiv, il giorno seguente, viene proclamata una Repubblica popolare. Ed è nella capitale della Sloboda ucraina che la provenienza locale dei secessionisti appare più incerta: i ribelli tentano di occupare il teatro cittadino, convinti sia la sede dell’amministrazione comunale.

I filorussi pianificano di innescare, anche con l’ausilio dei social network, altri focolai a Odessa, Kherson, Mykolaiv e Dnipropetrovs’k, proclamando nuove, e fittizie, repubbliche popolari: un chiaro riferimento alla guerra civile russa del 1917.

Le proteste sono però sostenute da poche centinaia di persone, sovrastate dalle contro-manifestazioni unitarie. I progetti di una Novorossija allargata cadono nel vuoto quando i servizi segreti ucraini, coordinati dal ministro degli Interni Arsen Avakov, e sostenuti da attivisti locali ma anche dai nazionalisti guidati da Andriy Biletskiy, liberano gli edifici amministrativi a Kharkiv. (…) Solo a Donets’k e Luhans’k lo stato ucraino perderà il monopolio della forza in favore dei separatisti e dei crescenti mercenari russi, arrivati dal confine russo a rimpinguare il malcontento nelle regioni orientali.

Inizialmente, le proteste contro il governo centrale vengono tiepidamente sostenute dagli oligarchi locali, come Rinat Achmetov e Aleksandr Yefremov, i mecenati del Partito delle Regioni di Janukovyč. Useranno questa leva per fare pressione a Kyiv, temendo di perdere la propria influenza dopo Maidan, a favore gli oligarchi rivali che, sfruttando il dilemma di sicurezza in molte oblast’ sud-orientali, erano diventati per pochi mesi governatori a interim. (…)

Un braccio di ferro, quello tra clan filorusso del Donbass e governo di Kyiv (sostenuto, come visto, dagli oligarchi comunemente etichettati come ‘filo occidentali’), risoltosi tuttavia in maniera proficua: a metà maggio, mentre Mariupol’ è temporaneamente occupata dai separatisti, gli operai dell’Azovstal’ – l’acciaieria di Achmetov, che otto anni dopo acquisirà ancor più tragica celebrità – marciano contro gli edifici occupati dai filorussi chiedendo loro di lasciare la città, definitivamente liberata a giugno grazie a un’operazione condotta anche dal battaglione Azov, formatosi un mese prima a Berdyansk’.

(continua)

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