Un libro di Sergio Rizzo. Alle origini della crisi delle pensioni

Di pensioni si parla da decenni alla ricerca di una soluzione perfetta che risolva i problemi senza scontentare nessuno. A parte l’opzione urlata dai manifestanti francesi (taxer les riches) resa famosa dalla danza di Mathilde Caillard e convalidata dai casseurs arrivati da mezza Europa, non sembra che finora sia stata trovata una via d’uscita all’allungamento della vita, all’invecchiamento della popolazione e all’aumento della spesa pensionistica. L’unica strada che è apparsa logica è tuttora l’allungamento della vita lavorativa e dunque l’aumento dell’età per andare in pensione.

È bene però conoscere le premesse di una crisi annunciata. Ci aiuta Sergio Rizzo in un libro appena pubblicato da Solferino (Il Titanic delle pensioni). Ferruccio De Bortoli lo presenta ai lettori del Corriere della Sera con un articolo leggibile al seguente link. Seguiamo la sua traccia.

Alle origini il sistema pensionistico era a capitalizzazione ovvero i contributi venivano versati in un fondo e investiti. Già alla fine della guerra, però, si cambiò strada e ci si mosse verso il sistema a ripartizione nel quale, come è noto, le prestazioni vengono pagate con i contributi di chi è ancora al lavoro. Scrive De Bortoli “quando l’Italia era giovane e sfrontata, sicura di conquistare il futuro con la stessa facilità con cui si era lasciata alle spalle la guerra, con le sue ferite e le sue macerie, la sostenibilità della previdenza era l’ultima delle preoccupazioni (….). Gli anziani allora erano pochi, le famiglie se ne facevano carico più facilmente. (….) Perdurava il riflesso di una civiltà contadina nella quale le famiglie convivevano nelle cascine, si davano una mano reciproca in condomini affollati di bimbi verso i quali c’era più tolleranza di oggi”.

Un paese con tante persone al lavoro, con la vita media più breve di oggi e con pochi pensionati non poteva preoccuparsi di un sistema pensionistico a ripartizione. Le premesse della crisi furono poste molte più in là quando i partiti di governo si accorsero quanto potesse incidere sul consenso elettorale lo Stato che erogava prestazioni assistenziali e previdenziali. Ricorda De Bortoli che “nel 1969, il governo Rumor scelse definitivamente il sistema a ripartizione. Le pensioni di anzianità consentivano già di lasciare il lavoro con 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Nel 1973 arrivò la versione più audace, quella delle baby pensioni che consentivano di ritirarsi anche con meno di 35 anni”. La riforma era rivolta ai dipendenti pubblici e introduceva la possibilità di lasciare il lavoro per le donne sposate con figli dopo 14 anni e sei mesi di contributi, per tutti dopo 20 e solo per i dipendenti degli enti locali dopo 25 anni. Nel corso degli anni divenne perciò normale che persone di 35 o 40 anni di età andassero in pensione e oggi costituiscono una componente non trascurabile della massa dei pensionati.

«Una follia costata alla collettività — scrive Rizzo — 250 miliardi, per non parlare dell’impatto sulla scuola pubblica risultato devastante». Ma non finì lì. La previdenza divenne una merce di scambio tra gruppi di pressione e partiti di governo. Arrivarono così i riconoscimenti “di contributi figurativi a favore di servitori dello Stato, di categorie disagiate, del grande bacino dei lavoratori agricoli, vaste categorie di votanti” e i prepensionamenti per risolvere grandi crisi aziendali.

Prosegue De Bortoli “L’amara realtà che emerge dal pamphlet di Rizzo è che il concorso di colpa è stato, salvo poche eccezioni, pressoché generale. Non sempre l’essere bipartisan è un merito. In materia pensionistica, sia a livello statale ma in particolare nelle Regioni, l’uso di leggine ad hoc, provvedimenti su misura per pochi privilegiati — politici, sindacalisti — emendamenti dell’ultima ora, è stato così ricorrente dall’essere diventato, anche in tempi recenti, una pratica abituale. Con molti che volgevano e volgono lo sguardo altrove. Ogni categoria (giornalisti compresi) ha le sue colpe”.

 

Dopo il raddoppio del debito pubblico negli anni ’80 crebbe la consapevolezza che occorresse ristabilire un minimo di razionalità nel sistema. Sull’onda di ripetute crisi finanziarie si impose una prima riforma nel 1995 (riforma Dini) che introdusse di nuovo una specie di sistema contributivo con assegni commisurati ai versamenti effettuati (ma il pagamento veniva e viene sempre fatto usando i contributi dei lavoratori in attività). Non siamo più nell’Italia del dopoguerra dove tutti cercavano di lavorare, si facevano tanti figli e i pensionati erano pochi. All’Italia di oggi – sottolinea De Bortoli – bisogna dire la verità e così conclude il suo ragionamento sul libro di Sergio Rizzo:

Il sistema pensionistico in un Paese sempre più anziano non regge. Lo segnala molto bene, con scenari inquietanti, l’ultimo Documento di economia e finanza (Def) che può essere riassunto così: solo con una forte immissione di immigrati regolari si può allargare la platea contributiva e innalzare il tasso di natalità. Com’è avvenuto in Germania e in Svezia. Non bastano gli asili nido. E non si potrà continuare a lungo — come si è fatto con la riduzione del cuneo — a scaricare sulla fiscalità generale una quota crescente di contributi, peraltro evasi in forma massiccia. L’Inps ha crediti contributivi largamente superiori ai 100 miliardi, che si è arrivati anche al punto di «rottamare». Per non parlare delle truffe (in particolare in agricoltura), dello scandalo dei falsi invalidi (la Sicilia ha il primato dei ciechi), della montagna di cause nelle quali l’Inps soccombe quasi in un caso su due. Il quadro è desolante. Apparentemente senza soluzione di fronte a un lavoro che cambia e spesso è intermittente, precario. L’evasione fiscale e contributiva non è più tollerabile, basterebbe non assecondarla per avere risultati apprezzabili. Separare l’assistenza dalla previdenza farebbe emergere costi collettivi e individuali oggi invisibili o rimossi. Rizzo è favorevole a un sistema a capitalizzazione non solo per il secondo pilastro ma anche per il primo. Una marcia indietro di 80 anni. Ma soprattutto un bagno di umiltà in un Paese che si illude di poter vivere ancora a lungo al di sopra delle proprie possibilità”.

Claudio Lombardi

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