Un nodo ineludibile: la sanità pubblica. Intervista a Nino Cartabellotta
Di sanità si parla da anni quasi solo per evocare tagli di spesa e anche nei piani del Governo non si comprende quale sia il disegno strategico che intende realizzare. Qual è la sua impressione?
In effetti dal giorno del suo giuramento, il Premier non ha mai parlato di sanità in termini di programmazione. Lo ha fatto solo occasionalmente e sempre in relazione ai tagli di spesa. Questo silenzio può essere interpretato in due modi: il primo è che manca un disegno in grado di generare consenso; il secondo è che il disegno esiste, ma è meglio non renderlo pubblico perché rischia di generare un dissenso generale. Forse che il Governo intende seguire quanti in Europa si stanno già liberando di una consistente parte della spesa pubblica destinata alla Sanità lasciando spazio all’intermediazione assicurativa e finanziaria dei privati?
Renzi, grazie al suo spirito rottamatore, avrebbe tutte le carte in regola per salvare il SSN, ma non ho la certezza che questa sia una reale priorità del suo Governo: non vorrei che arrivassimo a riformulare l’art. 32 della Costituzione sostituendo “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo” con “La Repubblica CONTRIBUISCE a tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo”.
“Salviamo il Nostro SSN”, è il progetto lanciato dalla Fondazione GIMBE. Qual è il pericolo imminente che grava sulla sanità pubblica?
I valori di Sanità pubblica su cui si basa il progetto sono proprio quelli definiti dall’articolo 32 e dalla legge 833/78 (istituzione del SSN) oggi continuamente smentiti da fatti e dati. Per la politica è arrivato il momento di confermarne la validità o meno ponendosi innanzitutto la seguente domanda: “Per tutelare la salute dei cittadini italiani è più importante finanziare con il denaro pubblico solo interventi sanitari efficaci e appropriati, oppure garantire loro un accesso illimitato e indiscriminato a servizi e prestazioni sanitarie?”
In questo è cruciale ridefinire il ruolo delle Regioni, alle quali la riforma del Titolo V del 2001 ha concesso una straordinaria opportunità di autonomia organizzativa dei servizi sanitari. Purtroppo il sistema non ha funzionato soprattutto per la mancanza di senso di responsabilità e l’incapacità di alcune Regioni – in particolare tutte quelle del Sud – a fare buona politica e buona gestione della Sanità. La situazione che si è creata ha del paradossale e può essere riassunta nel motto “chi più spende, peggio spende”, dove livelli inadeguati delle prestazioni coesistono con deficit finanziario. Con la duplice conseguenza di far pagare aliquote Irpef più elevate ai cittadini costringendoli poi a migrare in altre regioni per cercare una migliore qualità nell’assistenza. E cosa ha fatto lo Stato? Si è limitato ad imporre piani di rientro, uno strumento finanziario che non ha avuto alcun impatto sulle modalità di spesa, né tantomeno sulla riorganizzazione dei servizi per garantire i LEA.
Cosa hanno insegnato 14 anni di livelli essenziali di assistenza?
Innanzitutto molte Regioni hanno introdotto LEA aggiuntivi senza tenere in alcuna considerazione i principi di efficacia-appropriatezza, sfruttando la loro autonomia in maniera opportunistica, per appagare la domanda dei cittadini e ottenere consenso elettorale. In secondo luogo, l’articolazione dei LEA è rimasta troppo generica, limitandosi a definire sottolivelli e servizi, senza definire tra le innumerevoli prestazioni sanitarie quali sono essenziali e quali no. Il tutto accompagnato per lungo tempo dall’assenza di un adeguato monitoraggio, di fatto avviato solo nel 2008.
Oggi la Sanità porta sulle spalle molti pesi: aumentano i costi delle tecnologie sanitarie che, a volte, producono benefici marginali o nulli (quando non comportano veri e propri rischi per i pazienti); inoltre gli eccessi di medicalizzazione generano problemi sanitari, economici, sociali e medico-legali nuovi e, in parte, ancora sconosciuti. Tutto questo, di fatto, rimane fuori dal controllo dei LEA.
Allora anche i professionisti hanno una parte di responsabilità?
Certo: se, invece di concentrarci solo su tagli o razionamento, spostiamo l’attenzione sulla riduzione degli sprechi, dobbiamo necessariamente rivalutare la responsabilità professionale sull’utilizzo appropriato delle risorse. La logica (sbagliata) della politica si focalizza sul razionamento; quella dei professionisti deve tendere a ridurre gli sprechi evitando la prescrizione ed erogazione di tutti gli interventi sanitari inefficaci e inappropriati.
Per garantire la sostenibilità del SSN, i professionisti sanitari devono prendere coscienza che una quota rilevante di sprechi deriva proprio dal sovra-utilizzo di interventi e prestazioni sanitarie. Restando nella morsa di continue indicazioni di contenimento dei costi, irrealistiche aspettative dei cittadini e assillanti timori medico-legali, non sarà possibile riprendere in mano le redini di una Sanità “sana” basata sulle evidenze e centrata sul paziente
Il concetto di “appropriatezza” ricorre spesso nelle sue argomentazioni. Non si parla di quantità di prestazioni bensì di qualità. È un approccio nuovo?
Occorre rimettere le evidenze scientifiche al centro di tutte le decisioni che riguardano la salute delle persone. Da noi, invece, si tende ad improvvisare perché è scomodo dichiarare esplicitamente che un intervento sanitario funziona/non funziona, serve/non serve. Di fatto si lascia un margine di discrezionalità usato un po’ da tutti: dalla politica, dai manager, dai professionisti sanitari e anche dai pazienti. La conseguenza inevitabile è che il denaro pubblico oggi rimborsa innumerevoli servizi e prestazioni sanitarie inefficaci, inappropriati e spesso dannosi, con il solo obiettivo di proteggere lobbies professionali, interessi industriali e clientelismi di varia natura, oltre a soddisfare la domanda dei cittadini/elettori.
La strada può essere una e una sola: aggiornare continuamente i LEA, tenendo realmente conto delle evidenze scientifiche, e monitorarne l’impatto. Il tutto può funzionare, a patto però di ridurre le aspettative di cittadini e pazienti nei confronti di una “medicina mitica”.
Nino Cartabellotta è Presidente della Fondazione GIMBE
nino.cartabellotta@gimbe.org
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