Ungheria e Polonia: il difficile rapporto tra vecchia e nuova Europa
I primi ministri di Ungheria e Polonia, l’ormai stranoto Viktor Orbán e l’anonimo Mateusz Morawiecki hanno minacciato di porre il veto su quello che volgarmente viene chiamato Recovery Fund, il piano di investimenti della Commissione Europea che servirà a rilanciare il PIL dopo la drammatica contrazione del 2020. Il governo ungherese e quello polacco minacciano di paralizzare l’UE, che, purtroppo, fuori da un limitato novero di materie, delibera all’unanimità. I contrasti sono iniziati perché Parlamento Europeo e Commissione Europea hanno espresso l’intenzione di subordinare da ora in avanti l’erogazione dei fondi strutturali al rispetto dello Stato di diritto. I fondi strutturali, a partire da quelli utilizzati per strade, ferrovie ed altre infrastrutture sono stati determinanti nell’adesione all’UE nel 2004 per la crescita di paesi come l’Ungheria e la Polonia.
Ricorda benissimo Matteo Tacconi su https://www.ispionline.it/ che il governo polacco e quello ungherese, pur esprimendo da anni posizioni euroscettiche, mai erano arrivati fino ad ora ad usare il potere di veto.
Sulla vicenda Recovery Fund – Ungheria – Polonia si incrociano due ordini di questioni: i problemi dell’area euro e in particolare dei suoi paesi più indebitati e i problemi dell’allargamento ai paesi postcomunisti.
La vicenda greca ci ha dimostrato che l’area euro è una costruzione incompleta. Per una crisi scatenata da un piccolo paese stava quasi per saltare la moneta unica e per anni gli strascichi di quella crisi hanno gravato in modo drammatico su crescita e occupazione di molti paesi dell’area euro. A tal proposito bisognerebbe per esempio ricordare che ancora oggi il tasso di disoccupazione in Spagna è il doppio di quello del 2007. Oggi come ieri l’area euro non ha tutti gli strumenti necessari per rispondere alle grandi crisi e i suoi paesi più deboli e indebitati ne pagano le conseguenze. Non è un caso che nelle prime settimane dopo lo scoppio della pandemia i listini di borsa più colpiti non erano quelli dei paesi più affetti dal virus, ma quelli dei paesi più deboli. Gli indici di borsa dei mediterranei erano tutti ugualmente zavorrati a prescindere dai successi nella gestione dell’emergenza sanitaria. Lisbona e Atene avevano bassi numeri dei contagi e listini a carte 48. Certo, tutto quello che conta non si riduce ai mercati, ma i mercati ci danno in tempi rapidi indicazioni su dove sta andando l’economia. Man mano che si è profilata una soluzione europea la situazione dei paesi più deboli è migliorata nettamente. Il dati del secondo trimestre del 2020 sono stati confortanti per l’Italia anche perché il compromesso trovato in Europa ha creato un clima di moderata fiducia tra gli investitori. Ora ci sono pure rumors secondo cui la Commissione Europea vorrebbe rendere perenne il recovery plan, ma è evidente che, se da un lato è assolutamente necessario mettere a terra in tempi brevi una soluzione europea, dall’altro una soluzione tecnicamente corretta è un bilancio federale dell’area euro e non piani più o meno stabili che si rivolgono all’UE a 27.
Qualcuno dice che redistribuire risorse dai ricchi paesi del nord ai paesi del sud comporterebbe un trasferimento di risorse dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri. Questo è falso nell’area euro ove comunque serve più redistribuzione. Effettivamente “un’unione dei trasferimenti” in un perimetro a 27 esporrebbe al rischio di trasferimenti da paesi dell’est a basso Pil, ma con i conti in ordine, a paesi più fragili, ma dove si vive meglio. La redistribuzione in un perimetro con dentro molti paesi dell’Europa Centrale e Orientale potrebbe funzionare solo con uno sforzo enorme.
L’adesione dei paesi postcomunisti all’UE, oggi undici, è stato un percorso difficile da gestire ed è mancata in particolare la gestione post allargamento. Non poteva essere diversamente perché gli strumenti per la gestione post-allargamento sono stati troppo limitati. La trattativa per l’adesione dei paesi post comunisti all’Unione Europea ebbe luogo tra la fine degli anni novanta ed i primi anni duemila. Già allora erano ben presenti i sintomi delle attuali derive autoritarie. Orbán governò l’Ungheria già tra 1998 ed il 2002 e, pur non arrivando agli eccessi da regime che si sono verificati dopo il suo ritorno al potere nel 2010, si fece notare per i suoi metodi poco democratici. Se la Slovacchia invece che dalla destra europeista di Dzurinda a cavallo del 2000 fosse stata governata dai populisti del precedente premer Mečiar forse non sarebbe entrata nell’UE nel 2004, ma nel 2013 insieme alla Croazia. E’ possibile sintetizzare dicendo che, prima del 2004, i numeri delle economie dei paesi dell’est erano lontanissimi da quelli dell’Europa occidentale, ma la promessa dell’adesione all’Unione Europea (e a pensar male anche la speranza dell’arrivo di una valanga di fondi strutturali) era stata sufficiente a portare i paesi postcomunisti sul sentiero della democrazia. Nel 1993 l’Unione a 12 membri aveva formalizzato i cosiddetti criteri di Copenaghen che definivano quali caratteristiche dovevano avere i paesi che volevano entrare nell’Unione Europea. Oltre a requisiti economici ed all’obbligo e capacità di recepire la normativa comunitaria vi erano anche parametri di buon funzionamento della democrazia: elezioni libere, indipendenza della magistratura, tutela delle minoranze. La realtà è che in questo momento almeno due paesi dell’UE, Polonia e Ungheria, non rispettano più i criteri di Copenaghen nella parte relativa al funzionamento della democrazia. I trattati prevedono un rimedio generalizzato contro le derive autoritarie, il Consiglio, dove siedono i rappresentanti dei governi, dovrebbe rilevare a maggioranza qualificata il fatto che è venuta meno la democrazia in un paese e poi dovrebbe deliberare nuovamente, questa volta all’unanimità, la sospensione dal voto nelle istituzioni europee del paese che non è più democratico. E’ del tutto evidente che il governo polacco non voterebbe mai la sospensione delle istituzioni UE dell’Ungheria e l’Ungheria non voterebbe mai quella della Polonia, perché di fatto il paese che per primo vota per la sospensione dell’altro rischia poi poco dopo di essere sospeso a sua volta. E peraltro se pure si provasse la strada della sospensione di Polonia e Ungheria non mi sorprenderei di imbattermi anche nei veti del governo sloveno, di quello slovacco e di quello romeno. A questo punto alle istituzioni UE non resta che la strada molto più soft, di provare a condizionare l’erogazione dei fondi strutturali non già alla democrazia nel suo complesso, ma all’indipendenza della magistratura. La motivazione ufficiale è che la mancanza di tribunali indipendenti mina l’efficiente utilizzo dei fondi europei. Purtroppo ci troviamo ancora una volta di fronte ad una Unione Europea in cui molti ripongono aspettative spropositate rispetto ai mezzi che ha a disposizione. È la stessa UE che ha tenuto insieme l’euro senza un bilancio dell’area euro e sanziona l’evasione fiscale dei giganti del web con la normativa antitrust.
E’ evidente quindi che, al posto del cosiddetto recovery fund, che poi non è un fondo ma un piano, o subito dopo il recovery fund dovrebbe arrivare un bilancio dell’area euro ed un consolidamento politico dell’area euro stessa; sotto un profilo strettamente teorico non hanno tutti i torti i polacchi e gli ungheresi se rifiutano un’ulteriore integrazione economica. Per andare avanti nell’integrazione occorrerebbe anche un minimo di comunanza politica e un tentativo di convergere su simili standard economici e sociali, tentativo a cui molti paesi dell’Europa Centrale e orientale non sono interessati. Penso, per esempio, a paesi come la Repubblica Ceca, dinamici e con piena occupazione, ma con fasce importanti della popolazione terrorizzate dal fatto che un allentamento della contrazione salariale possa fare collassare la nazione. Una volta sistemata la questione dell’Euro bisognerà trovare nuovi equilibri con i paesi che rimangono fuori dall’Euro, perché non si può permettere a certe cancellerie di fare abbuffata di fondi strutturali e pretendere magari uno scudo militare contro la Russia, sfilandosi da ogni meccanismo di condivisione (per esempio il rifiuto delle quote di migranti) e calpestando la democrazia.
Salvatore Sinagra
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