Un’utopia necessaria: la partecipazione
Dopo gli attacchi terroristici in Francia c’è una grande attenzione su ciò che accade nella vita quotidiana delle periferie e dei quartieri popolari. Si osservano le condizioni reali delle comunità locali, ma ci si interroga anche sui comportamenti delle persone che le compongono. Si teme che piccole scelte individuali possano tradursi in fatti politici il cui impatto va ben oltre la dimensione locale. L’occasione è tragica, ma il metodo di guardare alla dimensione micro per capire cosa accade in una dimensione più grande è valido. Vediamo come e perché.
A Roma le dimissioni dell’ex Sindaco Marino hanno scatenato una discussione diffusa sui mali della città e sull’urgenza di affrontarli. Ci sono stati e ci saranno, nell’approssimarsi delle elezioni, molti convegni più o meno partecipati. Qualcuno si è già spinto a dire che c’è bisogno di una nuova classe dirigente (riferendosi anche alla Società civile, non solo a quella politica), addirittura di una nuova ‘oligarchia’ (De Rita), intendendo forse una nuova ‘elite’. Come può nascere una nuova classe dirigente senza la partecipazione diretta dei cittadini alla definizione di una nuova idea di città, quartiere per quartiere, magari partendo proprio dalle periferie? Forse attraverso il riciclaggio della vecchia classe dirigente obsoleta e impotente nella vita pubblica, ma abilissima nella difesa dei propri interessi privati economici e di potere? Le nuove classi dirigenti, nella nostra epoca, sono il frutto di processi, a volte anche tumultuosi e cruenti. Esse si formano ponendosi alla testa delle trasformazioni di una data Società e di un dato assetto dei poteri, e riescono a determinarle con la partecipazione concreta dei cittadini, che non sono solo dei numeri da infilare nelle statistiche.
Roma, come tutti ormai sanno, non è più quella ‘stupenda e misera città’ della quale scriveva Pasolini, una città dai tremendi squilibri, ma in tumultuosa crescita economica e culturale, con un tessuto sociale definito e leggibile. Non è più nemmeno la città delle estati di Nicolini, che furono tentativi riusciti di porla al centro dell’attenzione del mondo per la sua verve e capacità di innovazione culturale. Ora è fortemente degradata, sia sul piano ambientale, sia su quello della cultura e della morale civili. E la democrazia vi latita.
Eppure molti osservatori rilevano che nelle nostre sterminate periferie non c’è solo degrado e isolamento, ma anche creatività sociale e voglia diffusa di essere città per migliorare le proprie condizioni.
La professoressa Marianella Sclavi, esperta di tecniche partecipative, ha studiato diverse esperienze di partecipazione reale dei cittadini alla progettazione urbana nel Bronx a New York, nella città di Chelsea, nei pressi di Boston, ma anche in alcuni quartieri di Milano e di Torino. Si tratta di esperienze che si vanno facendo da una trentina d’anni, soprattutto nel mondo anglosassone, dove i partiti hanno una scarsa presenza territoriale ed è necessario costruire un rapporto diretto tra le amministrazioni e i cittadini. Si sono sperimentate e sviluppate delle metodologie interessanti che rispondono al nome di “Democrazia Deliberativa” e che hanno il pregio di sapersi adattare alle diverse situazioni. La cosa veramente importante è che i cittadini e le amministrazioni abbiano la capacità di ascoltarsi con la convinzione che chi la pensa diversamente non è un nemico da abbattere, magari col voto, ma una risorsa che si aggiunge. Altra cosa fondamentale è l’intenzione condivisa (sia dai cittadini, sia dalle amministrazioni) di avviare processi di co-decisione perché lo scopo è quello di aumentare la soddisfazione sociale per le decisioni pubbliche per evitare sia le ritorsioni di quelli che si sentono penalizzati sia il rinvio alle ‘Kalende greche’ , dell’attuazione di qualsiasi progetto di importanza pubblica.
E’ evidente che la Democrazia Deliberativa non sostituisce la Democrazia Rappresentativa, ma la integra e l’aiuta a uscire dal ‘cul di sacco’ nel quale i partiti, laddove esistono, come da noi, l’hanno portata, per la loro insipienza, per l’incapacità di comprendere i mutamenti sociali e culturali ed il conseguente distacco dalle esigenze reali delle popolazioni.
Utopie? No, già oggi numerose associazioni operano nelle nostre città seguendo quei principi. Il salto di qualità da fare è anche di quantità nel senso che i processi partecipativi devono diventare una modalità ordinaria di assunzione delle decisioni di rilevanza pubblica che, ad essere chiari, si dovrebbero chiamare col loro vero nome: decisioni politiche. E tutta questa attività, insieme all’indispensabile componente strategico-progettuale si chiama politica tanto per ridare sostanza a termini spesso trascinati nel fango da comportamenti disonesti e individualistici .
No, non si tratta di utopia, ma ormai di una necessità.
Lanfranco Scalvenzi
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