USA: una legge elettorale da cambiare

Oggi finalmente s’insedia il nuovo Presidente degli Stati Uniti Joe Biden. I giorni trascorsi dalla sua elezione non sono stati facili per la democrazia americana. L’azione eversiva promossa da Trump il 6 gennaio è stata condannata da quasi tutte le parti in patria e all’estero. Che potesse succedere un assalto al Campidoglio di Washington da parte degli ultras sostenitori del Presidente in carica, alcuni armati di tutto punto, era più che prevedibile. Lui, Trump, li ha chiamati nella capitale per “dare – ha detto – l’orgoglio necessario ai repubblicani più deboli per riprendersi il paese” e lui, nel suo folle comizio, li ha incitati ad andare alla sede del Congresso – “stiamo per incamminarci su Pennsylvania Avenue” ha sollecitato – per costringere i repubblicani renitenti, senatori e deputati, e lo stesso vicepresidente Pence a fare quello che lui voleva: rimettere in discussione il chiaro risultato del voto. Si deve alla scaltrezza dei commessi e delle commesse del Senato che le hanno prontamente messe in salvo se le schede del collegio elettorale giunte dagli Stati non sono state distrutte dagli invasori trumpiani e il Congresso ha potuto procedere, poi, alla certificazione della vittoria di Biden. Non a caso la Camera dei rappresentanti ha votato lo scorso 13 gennaio l’impeachment per Trump con l’assenso anche di 10 repubblicani.

L’attacco sbracato nelle fogge e nei comportamenti degli aficionados trumpiani, ma golpista e per nulla folkloristico essendo costato cinque morti, ha confermato urbi et orbi che Trump è un gran mascalzone fascistoide pronto a tutto pur di non riconoscere un risultato elettorale chiaro e lampante a suo sfavore. Biden, infatti, a novembre ha ottenuto 81.268.586 voti (51,4%) e Trump 74.215.875 (46,9). La percentuale per Biden è salita al 56,9% e quella di Trump scesa al 43,1% se si considerano i voti elettorali degli Stati: 306 contro 232.  Biden ha ottenuto circa 7 milioni di voti popolari in più dell’incendiario Tycoon platinato.

Sulle ragioni e sui limiti della vittoria democratica si sono lette in questi mesi molte analisi; alcune oggettive, altre meno, soprattutto in Italia, perché volte a riproporre la tiritera del “si vince al centro” come ricetta, contro ogni evidenza, anche per la nostra malmessa sinistra. La questione su cui meno si sta discutendo, è che la vicenda elettorale statunitense ha messo in evidenza i limiti e le contraddizioni anacronistiche di una legge elettorale poco democratica che va cambiata se si vuole che la democrazia americana possa dispiegarsi pienamente e inclusivamente. La storia per conquistare il diritto di voto in America è lunga e si confonde con le fasi di avanzata e regressione della democrazia americana a iniziare dalla sua fondazione. E’ una storia drammatica che è costata lacrime e sangue alle minoranze escluse, innanzitutto a quella afroamericana.

Vediamone i punti principali da modificare.

Primo. La legge dovrebbe essere federale senza interferenze da parte degli Stati. Non a caso quelli a dominanza repubblicana, soprattutto nel Sud, adottano i più svariati pretesti e le più incredibili disposizioni per negare il voto ai poveri, ai neri e alle altre minoranze etniche e sociali: dai documenti di riconoscimento ai cavilli sul domicilio, dalle prove di alfabetizzazione al ridisegno delle circoscrizioni elettorali da parte delle amministrazioni repubblicane a favore del loro partito e alla riduzione dei seggi delle votazioni. In Texas ci volevano ben sette documenti per votare e il governatore repubblicano Greg Abbot aveva ridotto nella Contea di Harris i seggi da 14 a 1 per il voto anticipato di quattro milioni di elettori. Poi ha dovuto fare marcia indietro. A purgare le liste elettorali dagli elettori indesiderati provvedono in molti Stati, specialmente repubblicani, apposite commissioni che cancellano con i più vari pretesti centinaia di migliaia di elettori (in maggioranza democratici). In Georgia, per esempio, alle elezioni federali del 2018, l’allora Segretario di Stato repubblicano Brian Kemp – diventato governatore proprio in quelle elezioni  – aveva estromesso dai registri 500 mila cittadini per non essersi recati alle urne nelle due precedenti elezioni secondo il motto “Use it, or lose it”, usalo o perdilo. A cambiare le cose è stata la mobilitazione delle minoranze per l’iscrizione nelle liste elettorali promossa dalla nera Stacey Abrams, sconfitta da Kemp nel 2018. Grazie a lei non solo Biden ha conquistato la Georgia ma anche il Senato con l’elezione di due senatori democratici in rappresentanza di quello Stato portando a 50 i seggi dei democratici.

Secondo. Il diritto di voto non dovrebbe essere più legato alla volontaria iscrizione alle liste elettorali ma esercitabile al compimento dei 18 anni di età da parte di ogni cittadino americano, salvo le poche eccezioni legate a detenzioni per gravissimi reati. Il diritto al voto va pienamente inteso in democrazia come un diritto umano naturale riconosciuto in quanto tale. L’esclusione dal voto della minoranza nera è stata la principale concessione che, dopo la vittoria nella guerra civile, l’Unione fece agli stati sudisti ex confederati consentendo loro di praticare una sistematica discriminazione e segregazione razziale anche dopo la sconfitta del nazifascismo di cui gli Usa furono protagonisti. Molti neri americani combatterono in Europa per quella libertà che, per molti aspetti proprio a cominciare dal diritto di voto, veniva loro sostanzialmente negata in patria.

Terzo. Si può mantenere il sistema dei grandi elettori di ogni singolo Stato ma dovrebbe essere proporzionale ai voti ottenuti dai partiti in lizza e non più maggioritario con l’assegnazione di tutti i Grandi Elettori al candidato arrivato primo in quel determinato Stato. Inoltre andrebbe periodicamente rivisto a livello federale il numero di Grandi Elettori in rapporto alla popolazione per equilibrarlo più congruamente pur garantendo un peso agli Stati meno popolosi e più rurali. Oggi il rapporto è molto squilibrato. Il Wyoming con meno di seicentomila abitanti ha 3 voti elettorali rispetto alla California che ne ha 55 con 37 milioni di abitanti. In sostanza si tratta di far concordare il voto popolare con quello dei grandi elettori cui non va consentito di cambiare il mandato ricevuto. E’ il popolo degli Stati Uniti a eleggere il Presidente non gli Stati federati.

Infine, da ultimo ma non per ultimo, la data dell’insediamento. Il Presidente eletto fino al primo insediamento di Roosevelt nel 1933 prendeva possesso dei suoi poteri il 4 marzo. Addirittura cinque mesi dopo la sua elezione. Poi, con il 20esimo emendamento votato nello stesso anno, la data fu portata al 20 gennaio a partire dal 1937. Cioè, circa due mesi e mezzo dopo le elezioni. Un tempo eccessivo in cui finora non era successo niente, ma che l’attacco eversivo di Trump ha sfruttato ampiamente mostrandone il pericoloso anacronismo. Sono tempi che vanno accorciati.

Un mese può bastare perché il Presidente degli Stati Uniti eletto da tutto il popolo americano possa iniziare a governare.

Aldo Pirone

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