Zingaretti: dimissioni contro le correnti o per un nuovo partito?
Più passano i giorni e più le dimissioni di Zingaretti da segretario del Pd appaiono inspiegabili. Se si fosse trattato di un crollo psico fisico sarebbe già stato superato con tante scuse e tante promesse di rilanciare il partito. Così non è e allora bisogna ricorrere alla motivazione ufficiale fornita dall’ex segretario: il Pd è un partito nel quale si pensa solo alle poltrone. C’è però una domanda obbligatoria alla quale Zingaretti non ha risposto: lui che è nato e cresciuto nel Pci-Pds-Ds-Pd si accorge solo adesso che esistono le correnti e le lotte di potere? Ci vuole dire che lui stesso non ha mai agito per difendere se stesso e quelli a lui affini? È chiaro che è impossibile credere allo stupore indignato di Zingaretti. Tra l’altro è assolutamente ingiusto definire il Pd come un partito concentrato sulla lotta per il potere (le famose poltrone). Dando per scontato che tutti i partiti sono impegnati nella conquista e nel mantenimento del potere (vogliamo pensare un attimo ai 5 stelle e a Conte?) e che è anche fisiologico che accada (salvo le degenerazioni) si può dimostrare in mille modi che il Pd è un partito che ha sempre elaborato proposte e progetti e si è impegnato per realizzarli avendo anche la fortuna di disporre di un “serbatoio” di persone qualificate per assumere incarichi di governo o apicali nei settori pubblici. D’altra parte se è vero che negli ultimi 15 anni, pur avendo perso varie elezioni, è stato al governo per quasi undici esprimendo 4 presidenti del Consiglio e 2 presidenti della Repubblica qualche idea da presentare e qualche competenza ce l’avrà sicuramente avuta.
Detto ciò le dimissioni di Zingaretti per il modo brusco e offensivo e per essere state date alla ricerca della massima visibilità pochi giorni prima dell’Assemblea nazionale nella quale avrebbe potuto fare un discorso politico di attacco ai suoi avversari interni forte del 70% dei voti di cui dispone, sembrano preludere ad una rottura del Pd e alla creazione di un altro partito. Se così non fosse bisognerebbe pensare ad una instabilità emotiva dell’ex segretario poiché con il suo gesto ha offeso quel milione e 200 mila cittadini che lo hanno eletto nel rito delle primarie.
L’ipotesi di un partito nuovo è contenuta nella proposta che viene da più parti di una costituente della sinistra. Una costituente non si fa per confermare il partito che c’è già e che, evidentemente, viene considerato insufficiente. La si fa per fondare un altro partito. Di sinistra cioè libero da quella componente liberaldemocratica che in parte è già uscita dal Pd e in parte no. Se la strategia è questa allora le dimissioni di Zingaretti e tanti altri segnali acquisiscono un senso. Il Pd che nacque per unire diverse culture che non potevano essere racchiuse sotto un marchio di sinistra non può essere il luogo da cui viene promossa una costituente che si rivolgerebbe naturalmente verso una fusione con Leu e con il M5s.
La domanda da farsi però è un’altra: ha senso questo tentativo oggi? Innanzitutto è singolare che si imbocchi questa strada mentre il M5s è impegnato in un’operazione quasi opposta: convergenza verso il centro per un partito ecologista moderato. Di Maio si è lasciato andare parlando di M5s moderato e liberale, ma attribuire a Conte la leadership non significa certo imboccare una strada anti sistema e anti politica com’era nel vecchio M5s.
Comunque sì, può essere un’operazione che aiuta a fare chiarezza nella politica italiana. La fondazione del Pd si basava su una scommessa puramente intellettualistica di fondere culture e di inventare un progressismo italiano che non è mai decollato e comunque non si è consolidato. È andata invece crescendo una richiesta di sinistra insieme all’equivoco che potesse essere il Pd il destinatario. In verità non si trattava di una richiesta di massa viste le percentuali di voti presi da prestigiosi leader come D’Alema e Bersani usciti dal Pd proprio per dare sfogo alla voglia di sinistra. E comunque se il primo compito della sinistra è difendere gli interessi dei lavoratori e dei più disagiati ci sono stati altri soggetti che hanno preso il suo posto, Lega e Chiesa cattolica in primo luogo.
Molti dicono che ci vuole un partito del lavoro e che questa sarebbe la giusta collocazione di un partito di sinistra o di un Pd ristrutturato. Ma che vuol dire oggi “partito del lavoro”? Di quale lavoro si parla? Ci siamo dimenticati che ci sono i garantiti (pure troppo), i privati, i pubblici, gli autonomi, i lavoratori poveri e sfruttati ed altre categorie? Varrebbe la pena certamente difendere interessi, diritti e rappresentarli tutti, ma siamo sicuri che l’etichetta “sinistra” non significhi semplicemente un nuovo statalismo e un nuovo assistenzialismo che mette tutti a carico della spesa pubblica? È questo che ci vuole per l’Italia?
Sarebbe una visione molto ristretta, anche se ovviamente sarebbe un partito schierato per la transizione ecologia e digitale, perché guarderebbe sempre alla redistribuzione (sacrosanta, per carità!) della ricchezza prodotta e non a come produrla e a come superare i mali cronici dell’Italia. Sì la transizione ecologica porta a correggere distorsioni e limiti e dovrebbe portare sviluppo, ma questa spinta oggi viene innanzitutto dalle istituzioni europee e dai grandi gruppi industriali e finanziari. Ma se poi si riducesse alla creazione di un grande partito di sinistra come sponda politica per il mondo sindacale sarebbe un’opzione valida se altri penseranno a tutto il resto (i limiti strutturali del modello italiano). In questo quadro un partito del lavoro avrebbe la sua funzione, ma come una parte e non come il cuore di un nuovo bipolarismo
Claudio Lombardi
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