Quando la sinistra italiana diventa la spalla di Hamas

C’è un punto in cui l’ingenuità smette di essere vezzo e diventa complicità oggettiva. Lo superi quando scambi una macchina terroristica per un soggetto politico legittimo, quando ne prendi in prestito il lessico, quando rilanci la sua narrazione senza filtri. Non serve malafede, basta pigrizia intellettuale. Una certa sinistra quel salto l’ha fatto da tempo, trasformandosi in cassa di risonanza di Hamas. Non è coraggio, è sudditanza culturale travestita da umanitarismo.

La dinamica è semplice. Hamas non è un sindacato in lotta, non è una ONG con i gommoni, non è una romantica resistenza da poster. È un’organizzazione paramilitare che usa i civili come scudo, che arruola l’odio come dottrina, che fa della morte un’alfabetizzazione politica. In questo quadro chi sfila con slogan cuciti su misura per la sua propaganda non sta dando voce agli ultimi, ma presta la propria voce a chi gli ultimi li sacrifica. Se i razzi partono dai cortili delle scuole e gli arsenali stanno sotto gli ospedali, la prima vittima è sempre il popolo che dici di difendere.

Il nodo è lo sguardo corto. Ci si blocca sull’ultima esplosione e si finge di non vedere l’officina che l’ha preparata. Si espelle il contesto perché disturba la narrazione. Bastano tre parole d’ordine, un megafono e nasce l’indignazione prêt-à-porter. Ma la politica non è sceneggiata. È responsabilità, conseguenze, scelte difficili. Se rifiuti di distinguere tra una democrazia che risponde a un attacco e un gruppo teocratico che quell’attacco lo rivendica, non stai nel mezzo: stai diventando utile a uno dei due.

Dentro questa deriva si è aperta un’altra scorciatoia. La sinistra, oramai sfilacciata da assenza di visione e di programmi, ha lasciato che il proprio sindacato di riferimento diventasse un partito ombra. La leva costituzionale dello sciopero si trasforma così in clava coercitiva, mentre slogan, calendari e cornici narrative si allineano in un circuito che premia il volume e penalizza la sostanza. La saldatura tra apparati politici e mobilitazioni, quando scivola nella prova muscolare, non alza la qualità del confronto: la schiaccia. Spinge la discussione sull’onda dell’emotività, incoraggia minoranze rumorose a parlare per tutti e riduce lo spazio del merito. Intanto l’esecutivo, con tutti i suoi limiti, porta a casa continuità operativa e mantiene una interlocuzione europea stabile. Qui sta la frattura: alla spinta a incendiare il dibattito si contrappone una governance che, piaccia o no, regge gli urti. Se l’obiettivo è migliorare le decisioni, servono più argomenti e meno adrenalina di corteo.

A conferma della scenografia che vince sulla sostanza, basti l’accenno alla Flotilla: presentata come gesto epico, si è rivelata per ciò che era, un’operazione mediatica priva di basi logistiche e di una filiera di consegna tracciabile. Molto clamore, risultati minimi. Quando si scambia il mare per un palco, la realtà presenta il conto.

Poi c’è l’alibi del pacifismo. Diciamolo chiaro: il cessate il fuoco non è un rosario, è un contratto. Funziona se entrambe le parti lo rispettano, se esistono garanti, se gli arsenali vengono sequestrati, se gli ostaggi tornano a casa. Senza queste condizioni, il “basta guerra” in piazza diventa un prego continuate rivolto a chi ha iniziato sparando sui civili. Il pacifismo senza garanzie è poesia per chi non rischia nulla e condanna per chi vive sotto le sirene.

C’è anche il feticismo dei simboli. Bandane, kefiah, parole d’ordine importate in blocco, come se bastasse un costume per avere ragione. È travestimento geopolitico. Intanto si rimuove l’essenziale: il rispetto della vita, la tutela degli ostaggi, la differenza tra chi fa elezioni e chi le proibisce, tra chi tollera il dissenso e chi lo seppellisce. Una tradizione che difendeva i diritti civili finisce per giustificare chi i diritti li calpesta. Contraddizione che non si scioglie alzando il volume del coro.

E c’è un punto decisivo. Troppi passaggi superano la critica legittima alle scelte di un governo e scivolano in antisemitismo: doppi standard sistematici, negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, slogan che colpiscono comunità locali, silenzi selettivi quando l’odio prende di mira ebrei in quanto ebrei. Questo non è impegno civile, è un pregiudizio antico che torna in abiti nuovi. Chi dice di difendere i deboli non può normalizzare l’odio antiebraico, mai.

Poi arriva il “ma anche”. Condanna timida del terrorismo, subito annacquata da un però. Quel però è la colonna sonora della resa morale. Se arriva prima della liberazione degli ostaggi, del disarmo, del riconoscimento dell’altro come legittimo esistente, non è equilibrio: è ambiguità. E l’ambiguità, nei conflitti, non salva vite. Le perde.

Serve una scossa di realtà. Chi davvero ama i palestinesi dovrebbe isolare Hamas, perché è Hamas la diga che impedisce a quel popolo di entrare nella storia politica con diritti e responsabilità. Chi davvero tiene alla pace deve pretendere condizioni verificabili, non slogan. Chi crede nello Stato di diritto difende le regole quando bruciano di più, non solo quando tornano comode per colpire l’avversario di casa. E chi ha a cuore la dignità umana deve respingere l’antisemitismo senza condizioni, punto.

C’è ancora tempo per non fare la spalla. Si può tornare adulti, leggere le cose come sono, dire sì e no senza paura di scontentare la platea del momento. Si può recuperare l’orgoglio di una cultura che ha insegnato a dubitare, verificare, distinguere. Si può spegnere la posa e rimettersi gli occhiali.

La pace non è coreografia. È un ponte costruito con pietre pesanti: sicurezza, riconoscimento reciproco, garanzie credibili, rinuncia esplicita al terrorismo, restituzione dei prigionieri. Finché questo non c’è, la scenografia delle piazze resta un paravento. E chi lo regge, con o senza intenzione, fa il lavoro sporco per Hamas.

Piero Terracina (da facebook)

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