La democrazia esportata non funziona
L’errore più clamoroso e reiterato dell’Occidente è voler esportare modelli istituzionali nati dal brodo culturale dell’Illuminismo europeo all’interno di società in cui la struttura tribale, religiosa e clanica rappresenta ancora oggi l’ossatura portante del vivere civile. È come voler piantare un olivo nel deserto. Magari attecchisce, ma non darà mai frutto. Più spesso si inaridisce, muore, lasciando il terreno ancora più sterile di prima, pronto ad accogliere nuove forme di integralismo.
Ogni volta che si tenta di innestare un’architettura liberale e democratica in paesi governati da logiche tribali, dove la gestione del potere si frammenta su basi etniche, confessionali e famigliari, si finisce per alimentare un caos ingestibile. Non è solo un problema politico, è un errore antropologico. Le nostre costituzioni sono figlie di secoli di maturazione storica e culturale. Non si trapiantano con un voto alle Nazioni Unite o con una risoluzione del Parlamento europeo. Non si esporta la democrazia come si esportano gli agrumi. Non funziona.
In questo quadro, la celebre formula “due popoli, due stati”, tanto cara a una certa retorica occidentale, non è altro che una favoletta per palati ingenui. Una narrazione costruita per piacere, per rassicurare, per illudere. Ma del tutto scollegata dalla realtà. È il classico slogan che si sbandiera nei talk show e nei simposi diplomatici, salvo poi schiantarsi contro i kalashnikov, i razzi artigianali, le faide tra clan, le vendette trasversali.
Perché non funziona? Perché presuppone l’esistenza di due soggetti statuali equivalenti, solidi, stabili e disposti alla convivenza. Ma quando una delle due entità, nello specifico attuale quella palestinese, è attraversata da una miriade di fratture insanabili, Hamas contro Fatah, bande armate contro clan rivali, islamisti contro moderati, parlare di stato è già di per sé un azzardo. Figurarsi di uno stato laico, democratico, responsabile e in grado di rispettare trattati o di garantire la sicurezza del vicino.
E qui si arriva al nodo. Nel mondo islamico la religione non è solo una componente culturale, è il fondamento stesso dell’identità collettiva. Stato e religione sono un tutt’uno, inscindibili. La laicità, così come la intendiamo noi, semplicemente non esiste. Non si tratta di una fase di passaggio o di un ritardo nello sviluppo. È una struttura antropologica e giuridica che non contempla la separazione tra uomo e credente, tra diritto civile e diritto religioso, tra peccato e reato. Pensare che un contesto simile possa anche solo avvicinarsi alla nostra concezione di Stato di diritto, in cui la legge è superiore a ogni altra forma di potere, è un atto di superficialità culturale. O, peggio, di disonestà intellettuale.
Qual è allora l’unico modello che può funzionare in un simile contesto? Un emirato. Una forma statuale accentrata, riconosciuta a livello tribale e religioso, che imponga un ordine minimo compatibile con la realtà sociale che governa. Sì, può essere autoritario. Sì, può essere distante dai nostri valori. Ma almeno è comprensibile, parlato nella lingua del posto, riconosciuto come legittimo. E soprattutto funziona.
Tuttavia, anche questo schema ha i giorni contati. Perché nel frattempo una nuova forza, silenziosa ma inesorabile, sta comprimendo tutte le civiltà del pianeta dentro una stessa morsa: la globalizzazione. Un mondo connesso in tempo reale non tollera più l’isolamento, non accetta più il frazionamento assoluto. Anche le culture più distanti sono ormai costrette, spesso controvoglia, a trovare un linguaggio comune. Questa è la grande tenaglia del nostro tempo, e sarà la dinamica dominante dei prossimi cento anni.
Non sarà un cammino lineare. Ci saranno resistenze, strappi, conflitti. Ma l’alternativa è una sola: l’isolazionismo. Una scelta regressiva, sterile, che condanna intere popolazioni all’irrilevanza storica. Mentre il mondo si evolve verso una forma di intelligenza distribuita, comunicazione planetaria e sovranità condivisa, chi si rifiuterà di cambiare finirà ai margini. Non per colpa di altri, ma per propria cecità.
Il mondo cambia, e lo fa a una velocità che stordisce. Se non si ha il coraggio di guardare lontano, si rischia di restare accecati dal riflesso del giorno prima. E mentre da questa parte del Mediterraneo si continua a dibattere sull’opportunità di costruire due stati tra le pietre della Cisgiordania, dall’altra parte il mondo si prepara a diventare un unico, gigantesco sistema nervoso. Chi non ne ascolterà il battito finirà inevitabilmente fuori dalla Storia.
Piero Terracina


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