Il discorso di Draghi a Pisa/1

Pubblichiamo in tre parti il discorso di Mario Draghi, presidente della Bce, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa il 15 dicembre 2018.

Fra un mese si celebra il ventesimo anniversario della nascita dell’euro.

Sono stati due decenni molto particolari. Nel primo si è esaurito un ciclo finanziario espansivo globale durato trent’anni; il secondo è stato segnato dalla peggiore crisi economica e finanziaria dagli anni ’30. Da entrambi possiamo trarre utili lezioni, per ciò che occorre ancora fare.

L’unione monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista. Dobbiamo allo stesso tempo riconoscere che non in tutti paesi sono stati ottenuti i risultati che ci si attendeva, in parte per le politiche nazionali seguite, in parte per l’incompletezza dell’unione monetaria che non ha consentito un’adeguata azione di stabilizzazione ciclica durante la crisi. Occorre ora disegnare i cambiamenti necessari perché l’unione monetaria funzioni a beneficio di tutti i paesi e realizzarli il prima possibile, ma spiegandone l’importanza a tutti i cittadini europei.

PERCHE’ “UN MERCATO E UNA MONETA”

Il mercato unico è visto non di rado come una semplice trasposizione del processo di globalizzazione a cui nel tempo è stata tolta persino la flessibilità dei cambi. Non è così. La globalizzazione ha complessivamente accresciuto il benessere in tutte le economie, soprattutto di quelle emergenti, ma è oggi chiaro che le regole che ne hanno accompagnato la diffusione non sono state sufficienti a impedirne profonde distorsioni. L’apertura dei mercati, senza regole, ha accresciuto la percezione di insicurezza delle persone particolarmente esposte alla più forte concorrenza, ha accentuato in esse il senso di essere state lasciate indietro in un mondo in cui le grandi ricchezze prodotte si concentravano in poche mani. Il mercato interno, invece, sin dall’inizio è stato concepito come un progetto in cui l’obiettivo di cogliere i frutti dell’apertura delle economie era strettamente legato a quello di attutirne i costi per i più deboli, di promuovere la crescita, ma proteggendo i cittadini europei dalle ingiustizie del libero mercato. Questa era senza dubbio anche la visione di Delors, l’architetto del mercato interno.

L’obiettivo del mercato unico fu delineato in un momento di debolezza dell’economia europea. Il tasso di crescita dei dodici paesi che in seguito avrebbero formato l’area dell’euro, dopo essersi attestato al 5,3% annuo dal 1960 al 1973, si abbassò al 2,2% all’anno dal 1973 al 1985; similmente, il prodotto potenziale aveva rallentato dal 5% annuo all’inizio degli anni ’70 a circa il 2 all’inizio del decennio successivo.

La risposta dei governi alla bassa crescita fu di aumentare i deficit di bilancio. Dal 1973 al 1985 i disavanzi pubblici furono in media il 3,5% del PIL nei futuri paesi dell’area dell’euro a 12, il 9% in Italia. Negli stessi paesi la disoccupazione salì in media dal 2,6 al 9,2% e dal 5,9 all’8,2% in Italia. Per rilanciare la crescita, l’Europa aveva già a disposizione uno strumento efficace: il mercato unico. Ma una delle ragioni importanti del rallentamento nella crescita del prodotto potenziale era la stagnazione del commercio interno CEE all’inizio degli anni ’70, poiché il mercato comune europeo riguardava essenzialmente prodotti intermedi maturi, la cui crescita iniziava a declinare. Gli scambi dei prodotti di settori innovativi ad alto contenuto di R&S e di lavoro qualificato erano ancora intralciati dalle barriere non tariffarie che ostacolavano i trasferimenti di produttività. Rimuovendo queste barriere, il progetto del mercato unico puntava a rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma non si esauriva in ciò, perché mirava anche a garantire una rete di protezione capace di sostenere i costi sociali del cambiamento che ne sarebbe inevitabilmente derivato e creava il terreno politicamente più favorevole per far avanzare il processo di integrazione europea, anch’esso reso più arduo dalla crisi degli anni ’70.

Fu proprio il progetto del mercato interno che consentì all’Europa, a differenza di quello che accadeva su scala globale, di imporre i propri valori al processo di integrazione, di costruire cioè un mercato che fosse, per quanto possibile, libero ma giusto. La regolamentazione dei prodotti poteva essere utilizzata non solo per tutelare i consumatori dai bassi standard qualitativi vigenti in altri paesi e per proteggere i produttori dalla concorrenza sleale, ma anche per porre un freno al dumping sociale ed elevare gli standard delle condizioni di lavoro.

Per questi motivi il mercato interno si accompagnò, a metà degli anni Ottanta, a un rafforzamento delle regole comuni nella CE e dei poteri di controllo giurisdizionale. All’apertura dei mercati si accompagna la protezione della concorrenza leale con la creazione dell’antitrust; gli standard regolamentari divennero più cogenti, ad esempio con l’obbligo dell’indicazione della provenienza geografica per prodotti alimentari specifici. Le clausole di salvaguardia fondamentali del modello sociale europeo furono progressivamente incorporate nella legislazione comunitaria, nelle aree di competenza di quest’ultima.

La Carta dei diritti fondamentali ha impedito una corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori. È stata introdotta una specifica legislazione per limitare le pratiche di lavoro scorrette, come è avvenuto ad esempio quest’anno con la revisione della direttiva sui lavoratori distaccati. La legislazione europea tutela le persone a maggior rischio occupazionale, come nel 1997 la direttiva sui lavoratori a tempo parziale e a tempo determinato. Un anno fa le istituzioni europee hanno sottoscritto il pilastro europeo dei diritti sociali, riguardante le pari opportunità e l’accesso al mercato del lavoro, l’equità delle condizioni di lavoro, la protezione sociale e l’inclusione.

La legislazione europea non ha condotto a una completa armonizzazione dei sistemi di protezione sociale nei vari paesi membri, ma il divario in termini di standard qualitativi delle condizioni di lavoro è gradualmente diminuito, anche dopo l’entrata nell’Unione di paesi a più basso reddito pro capite. Nonostante il rallentamento osservato negli ultimi anni, varie ricerche condotte mostrano un processo di convergenza in importanti comparti della spesa sociale in rapporto al PIL relativamente sostenuto a partire dal 1980. Non così in ambito internazionale.

Con il mercato unico che richiedeva una maggiore stabilità dei tassi di cambio di quanto non avvenisse in un’area di libero scambio, si manifestarono peraltro importanti trade-off per la politica economica; lo chiarì Padoa-Schioppa in un suo famoso contributo sul “quartetto inconsistente”: se i paesi europei volevano beneficiare del libero scambio tra di loro, non potevano avere allo stesso tempo mobilità dei capitali, indipendenza della politica monetaria e un tasso di cambio fisso. I vari paesi inizialmente affrontarono questo dilemma cercando sì di mantenere i cambi fissi, ma introducendo i controlli sui movimenti di capitale a breve. Ciò permise di mantenere una certa autonomia nelle politiche monetarie ma, col progredire dell’integrazione finanziaria e con la progressiva abolizione dei controlli sui capitali nel corso degli anni ’80, i cambi fissi divennero insostenibili. Nel sistema monetario europeo, i paesi le cui valute erano legate al marco tedesco dagli accordi di cambio dovevano, di fronte alle tempeste finanziarie internazionali di quegli anni, prendere periodicamente la decisione se mantenere una politica monetaria indipendente e svalutare o mantenere il cambio agganciato al marco e perdere ogni sovranità sulla politica monetaria.

Data la frequenza con cui queste decisioni si presentavano ai policy maker, alcuni paesi persero sia i benefici della stabilità dei cambi, sia la sovranità sulla loro politica monetaria. I costi sociali per questi paesi furono altissimi. Il processo si concluse con la crisi valutaria del 1992-93, quando fu chiaro che i paesi entrati in recessione non avrebbero potuto continuare ad alzare i tassi di interesse per inseguire quelli tedeschi. D’altra parte, una politica di svalutazioni reiterate mal si conciliava con la costruzione del mercato unico.

La situazione veniva ben descritta nelle parole del premio Nobel Robert Mundell, l’artefice della teoria delle aree valutarie ottimali: “Non riuscivo a capire perché dei paesi intenti a formare un mercato unico dovessero subire una nuova barriera al commercio sotto forma di incertezza sull’andamento dei loro tassi di cambio”.

La flessibilità dei tassi di cambio avrebbe indebolito il mercato unico in due modi. In primo luogo avrebbe ridotto l’incentivo delle imprese residenti nel paese che svalutava ad accrescere la produttività, perché avrebbero potuto – sia pur temporaneamente – elevare la competitività senza aumentare il prodotto per addetto. L’Europa sperimentò ripetutamente come questa via fosse tutt’altro che efficace. Dal varo dello SME nel 1979 alla crisi del 1992 la lira venne svalutata 7 volte rispetto al DM (marco tedesco), perdendo cumulativamente circa la metà del suo valore rispetto a questa valuta. Eppure, la crescita media annua della produttività in Italia fu inferiore a quella dei futuri paesi dell’area dell’euro a 12 nello stesso periodo, la crescita del PIL fu pressappoco la stessa di quella dei partner europei e il tasso di disoccupazione aumentò di 1,3 punti percentuali. Al contempo, l’inflazione al consumo toccò cumulativamente il 223% contro il 103% dei futuri paesi dell’area dell’euro a 12.

In secondo luogo, il progetto del mercato unico sarebbe stato a lungo andare compromesso se gli sforzi delle imprese volti ad accrescere la produttività fossero stati vanificati da politiche di “beggar thy neighbour” degli altri paesi attraverso svalutazioni ripetute. L’apertura dei mercati non sarebbe durata.

L’Europa aveva del resto sperimentato con la Politica Agricola Comune quali potessero essere i problemi generati dai cambiamenti nei valori relativi delle valute negli anni ’60. In assenza di una moneta unica, la PAC si basava su prezzi definiti in unità di conto. Nel 1969 la rivalutazione del marco tedesco e la corrispondente svalutazione del franco francese incrinarono la fiducia dei mercati a seguito delle richieste degli agricoltori colpiti di essere compensati per le perdite subite. Il problema fu affrontato introducendo compensazioni monetarie per mitigare gli effetti di improvvise variazioni dei prezzi agricoli a seguito di repentini aggiustamenti delle parità dei cambi. Questa soluzione si rivelò tuttavia di macchinosa realizzazione e incapace di impedire l’emergere di significative distorsioni nella produzione e nel commercio, con l’effetto di avvelenare le relazioni nella Comunità.

In sintesi, una moneta unica rappresentava, per lo meno in linea di principio, un modo per sfuggire ai dilemmi del “quartetto inconsistente”, offrendo ai paesi la possibilità di mantenere stabili i tassi di cambio e quindi di godere dei benefici dell’apertura all’interno del mercato unico, contenendone allo stesso tempo i costi.

Come sappiamo, non tutti i paesi che entrarono nel mercato unico aderirono allo stesso tempo anche all’euro. Alcuni paesi, come la Danimarca, agganciarono le proprie valute alla moneta unica. Per altri il mercato unico rappresentò l’anticamera dell’euro. Altri cinque paesi adottarono l’euro nei primi dieci anni e altri tre nei dieci anni successivi, mentre alcune economie più piccole non l’hanno ad oggi introdotto. Il caso del Regno Unito, l’unica grande economia che scelse di rimanere fuori dall’area dell’euro è particolare, non solo per motivi politici ma anche per ragioni strutturali, come la bassa sensibilità dei prezzi alle variazioni del tasso di cambio in passato.

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