Il discorso di Draghi a Pisa/2

I BENEFICI ATTUALI DI “UN MERCATO E UNA MONETA”

È opportuno chiedersi quali siano stati i benefici di “un mercato e una moneta”. Al riparo dello scudo dell’euro il commercio intra-UE ha accelerato, salendo dal 13% in rapporto al PIL nel 1992 al 20% oggi. Gli scambi all’interno dell’area dell’euro si sono accresciuti sia in termini assoluti sia come quota degli scambi totali tra le economie avanzate, anche dopo l’ingresso delle economie emergenti sul mercato globale. Gli IDE nell’area UE sono ugualmente aumentati, e nel caso italiano questi investimenti di origine UE sono aumentati del 36% tra il 1992 e il 2010.

Alla crescita del commercio intra-UE ha contribuito un fattore importante: l’infittirsi dei legami fra le economie tramite lo sviluppo delle catene di valore (value chains). Dall’inizio degli anni 2000 i legami all’interno della catena di approvvigionamento tra i paesi dell’UE si sono intensificati a un ritmo più sostenuto e hanno mostrato una maggiore tenuta durante la crisi, rispetto a quelli esistenti con i paesi al di fuori del mercato unico.

La rimozione delle barriere tariffarie ha favorito l’espansione dei flussi di commercio lordi in entrata e in uscita dai paesi, in corrispondenza alle diverse fasi del processo produttivo. La creazione e diffusione di standard europei ha conferito forte impulso alle catene di valore all’interno dell’Unione dando maggior certezza sulla qualità dei beni prodotti in altri paesi e in tal modo stimolando la frammentazione dei processi produttivi che è tipica delle catene di valore. La moneta unica, comprimendo i costi dei regolamenti delle transazioni e delle coperture dai rischi di cambio ha ulteriormente rafforzato questa tendenza. I paesi che sono parte delle catene di valore hanno tratto importanti benefici, soprattutto grazie all’aumento di produttività associato alla crescita degli input importati. A sua volta la maggiore produttività ha sospinto i salari: la partecipazione alle catene di valore da parte di un’impresa è correlata con un aumento dei salari per tutti i lavoratori, a prescindere dal loro grado di qualificazione.

Inoltre, ripartendo i guadagni e le perdite connesse con il commercio con il resto del mondo in modo più uniforme, le catene di valore hanno accresciuto la condivisione del rischio fra i paesi europei. Nell’Unione quasi il 20% dei lavoratori delle imprese orientate all’esportazione è impiegato in paesi diversi da quello dell’esportatore del prodotto finale.

Circa mezzo milione di lavoratori italiani partecipa ai processi produttivi di imprese che risiedono in altri paesi europei ed esportano nel resto del mondo. Dal canto loro, le imprese italiane partecipano, esse stesse, in misura significativa alle catene di valore, con effetti positivi sulla produttività del lavoro. È spesso attraverso questo legame con le catene di valore che specialmente la piccola-media impresa italiana, caratteristica del nostro sistema produttivo, riesce a sopravvivere e a crescere, conservando al Paese, in un mondo sempre più orientato alle grandi dimensioni, una sua caratteristica fondamentale. L’Italia è attraverso il mercato unico e con la moneta unica, strettamente integrato nel processo produttivo europeo.

Per i vari paesi dell’unione monetaria questa maggiore integrazione ha avuto due effetti importanti sulle loro relazioni di cambio. Primo, il costo di non poter svalutare nell’unione monetaria è diminuito. Analisi della BCE mostrano che l’entità dei disallineamenti dei tassi di cambio effettivi reali dei paesi dell’area dell’euro rispetto ai loro valori di equilibrio, sebbene più persistenti nel tempo, è inferiore rispetto a quella che si registra sia tra i paesi delle economie avanzate sia anche tra quelli legati da regimi di pegged exchange rate e che essa è diminuita nel secondo decennio di vita dell’UEM rispetto al primo.

Allo stesso tempo le catene di valore hanno ridotto i benefici di breve periodo delle svalutazioni competitive. Poiché le esportazioni hanno un maggior contenuto di beni importati, ogni espansione della domanda estera conseguita con una ipotetica svalutazione è ora controbilanciata dai maggiori costi dei prodotti intermedi importati. Le catene di valore hanno quindi diminuito la sensibilità dei volumi esportati al tasso di cambio.

Quindi, un paese che ipoteticamente volesse svalutare il proprio tasso di cambio per accrescere la propria competitività dovrebbe oggi utilizzare questo strumento in misura ben maggiore che in passato, non solo pregiudicando l’esistenza del mercato unico, ma subendo una sostanziale perdita di benessere al proprio interno a causa del maggior peso negativo della svalutazione sul prezzo delle importazioni. Alcuni studi su paesi extraeuropei suggeriscono che la perdita di benessere più elevata colpirebbe le fasce più povere della società, poiché le famiglie più povere tendono a spendere una quota maggiore di reddito per acquistare beni commerciabili rispetto alle famiglie più ricche, ma ciò accade in genere anche nei paesi dell’area dell’euro.

Non è neanche ovvio che un paese tragga vantaggio in termini di maggiore sovranità monetaria dal non essere parte dell’area dell’euro.

In primo luogo, la moneta unica ha consentito a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria rispetto al regime di parità fisse vigenti nello SME. Le decisioni rilevanti di politica monetaria erano allora prese in Germania, oggi sono condivise da tutti i paesi partecipanti. La dimensione dei mercati finanziari dell’euro ha inoltre reso l’area della moneta unica meno esposta agli spillover della politica economica americana, nonostante l’accresciuta integrazione finanziaria globale.

Infine, vale la pena di osservare che fra i presunti vantaggi della sovranità monetaria quello di poter finanziare con la moneta la spesa pubblica non è in apparenza particolarmente apprezzato dai paesi che fanno parte del mercato unico ma non dell’euro. La media ponderata del debito pubblico di questi paesi è pari al 68% del PIL (44% del PIL escluso il Regno Unito), contro un rapporto dell’89% per quelli a moneta comune.

In ogni caso, come mostra la storia italiana, il finanziamento monetario del debito pubblico non ha prodotto benefici nel lungo termine. Nei periodi in cui fu estensivamente praticato, come negli anni ’70, il paese dovette ricorrere ripetutamente alla svalutazione per mantenere un ritmo di crescita simile a quelli degli altri partner europei. L’inflazione divenne insostenibile, il “carovita” colpì i più vulnerabili nella società.

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