JOBS ACT: un referendum sul nulla

Tommaso Nannicini, uno dei “padri” del Jobs Act, dice la sua sul referendum che vorrebbe abrogarne una parte (www.ilfoglio.it). Di seguito alcuni punti del suo ragionamento.

L’idea alla base della riforma era di ridurre il lavoro atipico per favorire il tempo indeterminato. Il Jobs act ribalta il paradigma che aveva guidato tutte le riforme precedenti, per cui si facilitava il ricorso a forme contrattuali atipiche lasciando immutata la disciplina del lavoro stabile. Queste riforme avevano sì aumentato i margini di flessibilità organizzativa e produttiva delle imprese, ma ne avevano scaricati i costi solo su alcuni, a partire dai giovani, aumentando così il dualismo e il divario di opportunità tra i lavoratori stabili e tutti gli altri. Il Jobs act intendeva ridare centralità alle assunzioni a tempo indeterminato per ridurre il lavoro atipico (dai co.co.pro alle finte partite Iva).

Allo stesso tempo, il Jobs act si basava sull’idea di rafforzare le tutele dei lavoratori nel mercato, irrobustendo i sussidi di disoccupazione e creando un sistema di politiche di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. In quest’ultimo caso si è rimasti molto indietro anche perché la sconfitta al referendum costituzionale del 2016 ha impedito di ridare allo stato la competenza esclusiva sulle politiche attive.

Prima del Jobs act, l’Italia era un caso unico. La protezione dei lavoratori avveniva solo in azienda (e non in tutte). Per chi perdeva il lavoro o non lo trovava, quasi niente. I sussidi di disoccupazione erano ridicoli ed escludevano gran parte dei lavoratori, soprattutto giovani, donne e atipici. La protezione del reddito era affidata solo alla cassa integrazione. Poteva durare pressoché all’infinito (con deroghe e rinnovi), senza costi per le aziende e mettendo tutti i lavoratori a zero ore. Per non parlare della cassa per cessazione, in base alla quale un’azienda che non produceva più da anni (talora decenni) era tenuta in piedi anche se, intascati i soldi, i piani industriali non venivano rispettati.

L’ipertrofia della cassa aveva spiazzato i sussidi di disoccupazione e le politiche attive del lavoro tenendo legati i lavoratori a posti di lavoro ormai inesistenti. Il Jobs act parte da una filosofia opposta: dinamismo di mercato sì, ma rete di protezione sociale per i lavoratori. E’ il patto sociale delle grandi socialdemocrazie non certo il liberismo selvaggio.

Il vero colpo all’articolo 18 non arriva dal Jobs act ma dalla riforma del governo Monti nel 2012, allora sostenuta dal Pd di Pier Luigi Bersani e osteggiata dalla Cgil. E’ allora che si restringe a poche fattispecie la possibilità di reintegro in caso di licenziamento illegittimo per ragioni economiche. Il Jobs act interviene su quelle norme per i nuovi assunti e introduce un principio che ha una logica economica più che giuslavoristica: introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo. E’ la logica delle tutele crescenti. La tutela risarcitoria in caso di licenziamento ingiustificato aumenta con l’anzianità di servizio presso lo stesso datore. Rimane la tutela reintegratoria per i licenziamenti discriminatori e per alcuni licenziamenti disciplinari. Anzi, viene estesa a casi in cui non era prevista o lo era solo in forma attenuata dalla legislazione precedente: i lavoratori di partiti e sindacati, ma anche i licenziamenti durante il periodo di comporto per malattia o per disabilità che non compromette lo svolgimento delle mansioni lavorative. Se vincesse il Sì al referendum, per questi lavoratori il reintegro scomparirebbe.

La motivazione per introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo era duplice. Come in tutti i rapporti interpersonali, anche in quelli di lavoro la qualità (o meglio: la produttività) dell’incontro tra datore e dipendente può essere conosciuta e valutata soltanto col passare del tempo. Inoltre, è giusto che un dipendente che ha investito il proprio capitale umano e il proprio saper fare nella stessa azienda per molti anni riceva un risarcimento maggiore. La riforma introduce anche una procedura di conciliazione incentivata che ha due elementi. Primo: l’esistenza di una somma predeterminata per legge e sottratta alla disponibilità delle parti. Secondo: l’esenzione fiscale totale. Elementi che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto ridurre il contenzioso giudiziario e quindi, di nuovo, diminuire l’incertezza.

A un certo punto, però, arriva una sentenza della Corte costituzionale che di fatto abolisce le tutele crescenti, restituendo alla discrezionalità del giudice l’ammontare dell’indennità risarcitoria. Il contratto a tutele crescenti nella sua forma originaria di fatto non esiste più.

Tuttavia il contratto a tutele crescenti era solo uno dei tanti ingredienti del Jobs act. Gli altri sono rimasti. Si tratta della Naspi un sussidio che copre il 97 per cento dei lavoratori dipendenti se perdono il lavoro; della Dis-coll per i collaboratori e i giovani ricercatori; della cassa integrazione per gli apprendisti e per i lavoratori delle piccole imprese, prima esclusi.

Uscendo dalla logica precedente della flessibilità al margine, che puntava tutto sui contratti atipici e temporanei, il Jobs act per la prima volta prova a restringerne il campo, combattendo il precariato. La direzione era quella giusta e non si può dire che si è sbagliato tutto.

A questo punto, dovrebbe essere chiaro che i referendum di Landini non aboliscono il Jobs act. Dire che lo fanno è una fake news. Dire che risolveranno i problemi del mondo del lavoro, ancora peggio. In Italia, non c’è un problema di licenziamenti alti ma di salari bassi. E, come abbiamo visto, se vincesse il sì nel referendum che abolisce il contratto a tutele crescenti non si tornerebbe all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma all’ultima, vera modifica sostanziale di quella norma: la riforma Monti-Fornero-Bersani e quindi si ridurrebbe l’indennizzo massimo da 36 a 24 mensilità.

Colpisce il trasformismo delle forze politiche che si accodano a quel referendum, come se negli ultimi anni fossero state sulla Luna. Gli ultimi ministri del Lavoro prima del governo Meloni (Di Maio, Catalfo, Orlando) appartenevano a forze politiche che voteranno sì ai referendum di Landini. Non potevano cambiarle quelle norme, invece che aspettare di abolirle a rimorchio del sindacato?

Detto questo, non c’è dubbio che qualcosa sia andato storto con le misure del 2015. Se vogliamo riaprire una discussione che guardi al futuro, proprio nel Jobs act ci sono tanti elementi da riprendere, dal salario minimo alla formazione permanente. Questo è il tempo di chi vende emozioni, non di chi propone soluzioni.

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